Perché
ci sembrano più simili fra loro le persone di etnia diversa dalla nostra
ROBERTO COLONNA
NOTE E
NOTIZIE - Anno VIII - 20 novembre 2010.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). La sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente note di recensione di lavori
neuroscientifici selezionati dallo staff
dei recensori fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci afferenti
alla Commissione Scientifica, e
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società
Nazionale di Neuroscienze.
[Tipologia del testo:
RECENSIONE]
La
capacità umana di riconoscere i volti costituisce un’abilità di alto livello
con prestazioni mediamente molto efficienti, eccetto che nel riconoscimento di
visi di persone appartenenti ad un’etnia molto distante da quella
dell’osservatore. Questa eccezione ha il nome convenzionale di other-race effect, ossia effetto della
razza[1]
diversa dalla propria. Per la prima volta questo effetto fu descritto
scientificamente quasi un secolo fa da Feingold, che pubblicò il suo studio su
una rivista criminologica[2].
Prima di allora, l’esperienza comune del ritenere molto simili fra loro gli
individui appartenenti ad un popolo dalle caratteristiche fisionomiche molto
distanti, ha creato adagi popolari europei del tipo: “I Cinesi sono tutti
uguali”, ai quali fanno riscontro detti equivalenti fra gli asiatici: “Gli
Occidentali sono tutti uguali”.
Se
l’effetto è ben noto, ed è stato paragonato alla più bassa capacità
discriminativa nel giudizio fra elementi di una specie animale o di una
categoria di oggetti poco nota, i meccanismi neurali sottostanti questa “illusione
percettiva di alto livello” non sono ancora stati individuati. Per affrontare
il problema dell’identificazione di tali meccanismi, Luca Vizioli, Guillame A.
Rousselet e Roberto Caldara del Centre for Cognitive Neuroimaging, Institute of
Neuroscience and Psychology, University of Glasgow (UK) e Dipartimento di
Psicologia, Università di Friburgo (Svizzera) hanno registrato i segnali
elettrofisiologici ad alta risoluzione dallo scalpo di Asiatici dell’Est e
Caucasici dell’Ovest intenti a guardare coppie di facce di persone della
propria origine o dell’altra (Vizioli L.,
et al. Neural repetition suppression
to identity is abolished by other-race face. Nature Neuroscience [Epub ahead of print doi:10.1038/nn.2676], 2010).
Il
primo viso inducente adattamento era seguito dal viso target sia della stessa identità fisionomica che di quella opposta.
Si è studiata la soppressione della
ripetizione (RS), un fenomeno consistente in una riduzione dell’attività
neurale nelle regioni sensibili allo stimolo. In particolare, è stata
quantificata la RS in seguito alla ripetizione dello stimolo.
Le
analisi convenzionali sui volti target
non hanno rivelato alcun effetto RS. Per valutare la natura appaiata degli
eventi RS, i ricercatori hanno sottratto il segnale indotto dal viso
rappresentante il target a quello costituente
l’adattatore, per ogni singola prova, ed hanno realizzato analisi rigorose dei
dati. Questo approccio particolare ha rivelato una più forte RS per la stessa
identità per i volti appartenenti alla stessa razza, in entrambi i gruppi di
osservatori sul componente N170 sensibile ai volti.
Tale
modulazione neurofisiologica della RS suggerisce un’efficiente codifica
dell’identità per facce della stessa razza. Sorprendentemente, facce OR
evocavano identici RS, indipendentemente dall’identità, tutti apparentemente
simili per la popolazione neurale sottostante l’N170.
I
dati emersi da questo lavoro dimostrano che la sensibilità alla razza comincia
precocemente, al livello percettivo, e forniscono, dopo circa 100 anni di
indagini scientifiche, un correlato neurofisiologico dell’esperienza “sembrano
tutti simili”.
[1] Ricordiamo che non è biologicamente corretto parlare di “razza” per le varietà umane. L’impiego del termine race ha una consolidata tradizione negli Stati Uniti, dove il vocabolo è incluso nella costituzione e fa parte del lessico politico e giornalistico quotidiano. Questo uso ha condizionato anche i ricercatori - prima statunitensi e poi di tutto il mondo - ma andrebbe abbandonato, preferendo, di volta in volta, il termine più appropriato.
[2] Feingold C. A., Journal of Criminal Law and Police Science
5: 39-51, 1914.