Viaggio nel DSM 5: interessanti cambiamenti, nuovi errori e vecchi limiti
GIUSEPPE PERRELLA
(a cura di Giovanna Rezzoni)
NOTE
E NOTIZIE - Anno X – 15 settembre 2012.
Testi pubblicati sul sito
www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind
& Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a
fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta
settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in
corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli
oggetti di studio dei soci componenti lo staff
dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo:
AGGIORNAMENTO]
Premessa. Venerdì 22
giugno 2012, in occasione dell’incontro dei gruppi di studio strutturali con la
Commissione Scientifica della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia,
il presidente, Giuseppe Perrella, ha tenuto una relazione di presentazione
della nuova edizione dell’ormai celebre manuale diagnostico e statistico
realizzato per conto della maggiore associazione di psichiatri statunitensi.
Giovanna Rezzoni ha registrato la relazione ed ha collaborato con l’autore per
l’editing finale del testo che sarà
proposto in parti pubblicate settimanalmente.
(Terza
Parte)
Le conclusioni dei ricercatori presieduti da
Kupfer non erano di pubblico dominio nel 2010, pertanto non meraviglia che fra
i tanti commenti negativi ve ne fossero alcuni relativi a pecche già rilevate e
alle quali si intendeva porre rimedio. Ma quali erano i principali appunti
mossi all’edizione corrente del manuale, ossia il DSM-IV-TR, dalla task force dell’APA istituita nel 2006?
Il primo difetto è stato desunto dall’esame
di un problema tanto noto quanto trascurato.
Negli USA, una persona che si rivolge ad un servizio di diagnosi e cura per una
sofferenza psichica, in un numero notevolmente elevato di casi, anziché
ricevere una definizione del suo disturbo che esprima in una sintesi clinica le
ragioni del suo stato, riceve quattro o cinque diagnosi che corrispondono ad
altrettante categorie del DSM. Alla luce delle attuali conoscenze sulla
patogenesi dei disturbi mentali appare alquanto improbabile, se non addirittura
impossibile, che così tante persone siano affette allo stesso tempo da varie
sindromi: è ragionevole supporre che una causa biologica, come un alterato
sviluppo cerebrale, o una condizione prevalentemente acquisita, caratterizzata
da processi psichici disadattanti, siano responsabili di tutte le
manifestazioni sintomatologiche. E’ di questa opinione anche uno dei membri
dello staff dell’APA, Steven Hyman, che ha attribuito il problema delle diagnosi
multiple all’eccessiva somiglianza fra le checklists
che consentono di identificare i singoli disturbi.
Potremmo dire che questo primo rilievo
riguarda la significatività delle
diagnosi poste secondo i metodi del manuale, anche se la commissione non si è
espressa in questi termini, e temo che questo modo di concettualizzare il
problema vada un po’ oltre la preparazione in semeiotica medica della media
degli esperti consultati. Cosa intendo per significatività?
In medicina, quando non si riesce a porre subito una diagnosi eziologica
precisa, si cerca di formulare un giudizio il più possibile vicino alla realtà
del processo patologico del paziente: il grado di vicinanza di tale giudizio
diagnostico coincide con il suo livello
di significatività. Poniamo il caso di una persona affetta da febbre
tifoide, la malattia infettiva causata da una salmonella detta eberthella tiphi o bacillo di Eberth: se
la diagnosi fosse, in attesa di approfondimenti, “sindrome febbrile”, sarebbe
poco significativa; se invece fosse “enterocolite infettiva”, la sua
significatività sarebbe notevole, in quanto prossima all’esatto accertamento
causale e già in grado di orientare verso un trattamento con antibiotici ad
azione intestinale. La definizione di “sindrome febbrile” non è in astratto
sbagliata, ma coglie un aspetto solo marginale del quadro clinico e non
fornisce alcuna informazione sulle possibili cause; pertanto, etichettare come sindrome febbrile una salmonellosi, in clinica medica è
considerato un errore.
Mi si perdoni questa breve digressione, nella
sua sostanza elementare per i medici, ma necessaria per introdurre al problema
della significatività coloro che
medici non sono. Ho scelto un esempio di medicina interna per dare un’idea
generale del concetto, ma nella clinica dei disturbi che affliggono la mente
non mancano certo condizioni che consentono di illustrare le differenze di significatività
fra modi diversi di leggere gli stessi sintomi. Possiamo, infatti, proporre un
equivalente psichiatrico dell’esempio della malattia infettiva.
Se una persona è affetta da una depressione da stress non ancora diagnosticata per l’atipicità della sua presentazione
e, magari, per difficoltà nell’ottenere informazioni precise ed oggettive da
parte del paziente stesso, lo psichiatra potrebbe concentrarsi su
manifestazioni legate all’ansia o su disturbi del sonno, considerandoli
elementi indipendenti e non parte della sindrome ansioso-depressiva. Omettere
la diagnosi di depressione da stress, rilevando i disturbi del sonno,
è un po’ come definire sindrome febbrile la salmonellosi.
Nella pratica psichiatrica classica della
migliore tradizione europea, pur con tutti i limiti rappresentati
dall’imperfetta conoscenza dei processi alla base dei disturbi, si tendeva ad
interrogare le manifestazioni sintomatologiche plurime per verificarne l’eventuale
appartenenza a quadri clinici complessi, verosimilmente riconducibili ad un
unico processo o ad un unico insieme di processi strettamente interdipendenti.
In molti casi, questo lavoro diagnostico richiedeva un notevole bagaglio di
conoscenza derivante dall’esperienza, che includeva la capacità di discernere il
valore assoluto e relativo delle singole manifestazioni, riconoscendo, ad
esempio, i sintomi “non diagnostici”, ossia presenti nel quadro clinico ma
irrilevanti ai fini della diagnosi. Era, in genere, l’esperienza dello chef de clinique, ossia del professore
di psichiatria che aveva osservato e studiato un grandissimo numero di casi
nella propria carriera, a consentire di mettere ordine nel complesso dei dati
di osservazione, riportando i valori assoluti e relativi di ciascun segno e
sintomo ad una coerenza complessiva. Queste “diagnosi operative”, che andavano
oltre lo statico riferimento della nosografia, erano il cuore della clinica
psichiatrica e, anche se spesso facevano riferimento a criteri non
generalizzabili, quali la rappresentatività
di alcuni sintomi o l’importanza di un particolare fattore nel precipitare uno
scompenso, avevano una verifica nel monitoraggio costante e nelle variazioni
del quadro clinico, quale parte del processo di diagnosi continua, ossia una procedura basata su un approccio
opposto a quello del DSM. Mi piace ricordare che, adottando questa procedura, si
poteva impiegare il criterio della verifica prognostica per confermare o
correggere una diagnosi in quanto, nella maggior parte dei casi, i dubbi
sussistono fra disturbi diversi per andamento clinico e prognosi.
Il problema della significatività delle
diagnosi del DSM, e pertanto della loro aderenza e corrispondenza ai processi cerebrali
e mentali che generano sintomi, non sembra essere al centro degli interessi dei
revisori del manuale che, come ho già accennato, si sono preoccupati della
somiglianza eccessiva fra gli elenchi di sintomi delle sindromi e non del fatto
che quelle sindromi fossero “giuste” o “sbagliate”, ossia fondate su una
autentica e specifica realtà di alterazione mentale; oppure che fosse sbagliata
la procedura diagnostica che porta ad identificare come disturbi indipendenti
manifestazioni dello stesso quadro clinico.
Il problema è diventato “come evitare che si
abbiano più diagnosi parallele”. La soluzione sembra essere stata quella di
eliminare più di una dozzina di disturbi, in alcuni casi cancellando la
categoria diagnostica, in altri assimilandola ad una più generale.
Anche il secondo limite, rilevato dai
ventisette ricercatori presieduti da Kupfer e Regier, attiene alla
significatività delle diagnosi del DSM: in un numero rilevante di casi, le
manifestazioni cliniche non sono sufficienti per soddisfare i criteri diagnostici
della sindrome più prossima fra quelle contemplate, e una frazione considerevole
di pazienti presenta un insieme di sintomi che non trova alcun riscontro nelle
categorie del manuale. Diretta conseguenza è il ricorso frequente alla
definizione, concepita per i casi estremi,
di “disturbo non altrimenti specificato”. Per tale ragione si può dire
che la commissione abbia registrato il fallimento delle categorie relative alla
patologia del comportamento alimentare,
rilevando che il disturbo dell’alimentazione più frequentemente diagnosticato è
un eating disorder not otherwise
specified.
Le cose non sembra siano andate meglio per i disturbi dello spettro dell’autismo, in
quanto la maggior parte delle stime percentuali delle diagnosi poste in questo
settore della psicopatologia pediatrica, elenca al primo posto “disturbo
pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato”. Infine, anche se le
critiche alla categoria dei disturbi di
personalità, così come è definita nel manuale, sono numerose e note da
tempo, i revisori non si attendevano che il terzo, in ordine di frequenza
diagnostica, fosse il tipo “non altrimenti specificato”.
Questi esempi sono sufficienti ad evidenziare
che il profilo delle sindromi tracciato nel manuale, così come l’apparente
precisione suggerita dal dettaglio delle checklists,
in molti casi non corrisponda alla realtà: esistono certamente gravi omissioni
e categorie superflue, come rilevato dalla commissione di controllo, ma un
problema non meno importante è costituito, a mio avviso, dalla frequente
costruzione artificiosa dei criteri di diagnosi.
Gli autori del DSM-5 hanno cercato di
superare questi limiti eliminando le voci corrispondenti a disturbi del
DSM-IV-TR mai diagnosticati, e incoraggiando una raccolta più analitica e
dettagliata di informazioni cliniche. Si ritiene che, disponendo di una
maggiore quantità e qualità di dati, gli psichiatri potranno più facilmente far
corrispondere le manifestazioni sintomatologiche di un paziente ad una delle
caselle della tassonomia clinica, in parte rinnovata sulla base di queste
osservazioni.
Naturalmente, non è difficile per i medici
cogliere il compromesso e misurare la distanza dalla diagnostica medica, in cui
il criterio fondamentale è costituito dalla corrispondenza di un quadro clinico
ad un processo patologico, così che dai sintomi si possa distinguere, ad
esempio, una malattia infettiva da una degenerativa e, su questa base, indicare
lo specifico trattamento.
Rilevato, in questo compromesso, il
persistere di un difetto legato alla cultura ispiratrice della terza edizione,
passiamo a considerare un aspetto sicuramente positivo del DSM-5, cui ho già
fatto cenno nella panoramica iniziale sulle novità del nuovo volume:
l’introduzione della valutazione della gravità dei sintomi. Si tratta, a mio
parere, di un cambiamento importante, perché costituisce una rottura definitiva
con l’ottusa concezione dei quadri psicopatologici quali monoliti unitari e
statici, privi di evoluzione o gradazioni al loro interno e nella gamma fra il
normale e il patologico. E’ il recepimento di una visione cui la cultura
psichiatrica, per vie diverse, era giunta da tempo: ciascuna delle nostre
principali funzioni o prestazioni psichiche, in un dato momento della vita, può
essere collocata in un punto di una gamma che va dalle manifestazioni tipiche,
considerate normali, a quelle atipiche o disfunzionali che, nei loro livelli di
maggiore gravità, in genere coincidono con uno stato di danno o di alterazione
neurobiologica rilevante.
Il nuovo manuale prevede che, nel
diagnosticare una depressione maggiore,
ad esempio, sia stimata l’entità di ciascuno dei sintomi più importanti, quali
l’ideazione suicidaria o l’insonnia; oppure, nel riconoscere in un bambino la
presenza di un disturbo dell’attenzione
con iperattività, si valuti la sua capacità di focalizzare le abilità
percettivo-cognitive secondo una scala che prevede gradi che vanno da scarsa ad eccellente. La valutazione del grado delle manifestazioni consente
di stabilire se il sintomo richieda un trattamento e quale sia la terapia più
appropriata: ad esempio, una distraibilità che scompare se semplicemente si
propone al bambino un contesto strutturato e gli si chiede di svolgere un
compito, non richiede trattamento, all’opposto, una instabilità psicomotoria
incoercibile che non consenta di fermare lo sguardo sull’interlocutore nemmeno
se questi prende fisicamente il bambino e, abbracciandolo, lo mette a sedere
orientandogli il viso con delle carezze, giustifica un piccolo intervento
farmacologico. I revisori del DSM sanno che, per questo genere di disturbi
dell’età evolutiva, già si adoperano numerose scale e questionari, dunque il
loro intento è quello di proporre dei criteri che consentano di standardizzare
la stima di gravità, in maniera tale da ottenere lo stesso giudizio clinico per
pazienti con lo stesso livello di alterazione.
Naturalmente, lo scopo dell’unificazione dei
criteri per definire l’entità delle alterazioni, riguarda tutti i sintomi per i
quali si prevede la valutazione di gravità nel DSM-5. Si spera che questo
genere di accertamento renda il trattamento più specifico e adatto alla reale
condizione di ciascun paziente. Ad esempio, persone affette da depressione che,
pur soffrendo molto per le conseguenze del proprio stato sulla vita lavorativa
e familiare, presentano segni e sintomi lievi, avranno maggiori benefici da
cambiamenti nello stile di vita e dal supporto di una psicoterapia ben
condotta, che dall’impiego di farmaci antidepressivi. Studi recenti hanno
dimostrato l’efficacia scarsa o nulla degli inibitori selettivi della
ricaptazione della serotonina (SSRI), ossia dei farmaci maggiormente prescritti,
in condizioni caratterizzate da una sintomatologia depressiva di entità lieve o
moderata.
[continua]