Il decennale della fondazione della Società Nazionale di Neuroscienze  

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 26 gennaio 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: NOTIZIA]

 

Lo scorso 16 gennaio 2013 si è celebrato il decimo anniversario della fondazione della Società Nazionale di Neuroscienze Brain, Mind & Life Italia, che in questo periodo ha realizzato, grazie alla sua indipendenza da vincoli culturali e logiche di potere e di carriera, i suoi scopi di studio multidisciplinare ed interdisciplinare e di didattica e diffusione della conoscenza neuroscientifica, riuscendo ad attrarre, con ricercatori, studenti e studiosi, tante persone semplicemente interessate a un sapere sull’uomo fondato sulla conoscenza del cervello, e, infine, ad indurre molti giovani allo studio universitario delle neuroscienze.

La relazione del professor Giovanni Rossi, socio decano e presidente della Commissione Scientifica, ha ripercorso in dettaglio, anno per anno, gli eventi salienti e gli obiettivi raggiunti. Le relazioni delle professoresse Nicole Cardon e Diane Richmond hanno documentato le principali acquisizioni della neurobiologia cellulare e molecolare di questo decennio, che sono state oggetto di approfondimento, dibattito ed elaborazione teorica da parte dei soci.

La professoressa Ludovica R. Poggi ha posto in relazione i progressi della psiconeurofarmacologia molecolare e cellulare con la ricerca di base sul cervello, ed ha evidenziato i numerosi cambiamenti di prospettiva che incideranno, nel prossimo futuro, sui principi e sulla pratica della terapia psichiatrica.

La dottoressa Giovanna Rezzoni ha rilevato e discusso convergenze teoriche e sperimentali di campi come quello della psiconeuroimmunologia, della neuropsicologia e della psichiatria, che i nostri soci hanno promosso in questi dieci anni, facendo breccia in granitiche mura di separazione, ritenute insuperabili all’inizio della nostra avventura culturale e scientifica.

Il dottor Roberto Colonna ha trattato l’evoluzione dei rapporti e delle reciproche integrazioni fra neuroscienze cognitive e biologiche.

Il dottor Simone Werner ha presentato un quadro esaustivo della translational neurochemistry e delle numerose ricerche di base che hanno ottenuto risultati utili per la comprensione di processi fisiopatologici e patogenetici di malattie del sistema nervoso centrale.

Il dottor Lorenzo L. Borgia ha fornito un resoconto del lavoro di revisione della letteratura scientifica per l’aggiornamento e la preparazione all’attività di ricerca dei gruppi strutturali della società.

La chiusura dei lavori è stata affidata al presidente, professor Giuseppe Perrella, che ha ripercorso le tappe dello sviluppo delle neuroscienze in questi due lustri, sottolineando tutti quegli argomenti ed aspetti ignorati o trascurati dagli ambienti accademici italiani, che sono poi giunti all’attenzione di docenti e ricercatori anche grazie al contributo di un’opera intensa e costante di documentazione scientifica e trasmissione didattica posta in essere dai membri della Società. Il presidente ha poi proposto un lungo e commosso ricordo di Rita Levi-Montalcini, scomparsa di recente, ma sempre presente nella mente di tutti i soci che l’hanno considerata, fin dal primo giorno della costituzione associativa, madrina, esempio e guida nella ricerca e nella vita.

 

Da questo resoconto in estrema sintesi degli argomenti trattati dai principali relatori, ho volutamente escluso il riferimento al mio intervento: un breve discorso “a braccio”, come si suol dire, non programmato e che, a mio avviso, non meritava particolare attenzione; ma, poiché, mio malgrado, ha suscitato notevole interesse, mi è stato chiesto di darne conto in queste righe che saranno lette dai visitatori del nostro sito ufficiale.

Ho voluto cogliere l’occasione di questa celebrazione per riferire un po’ della mia esperienza e ricordare quando mi avvicinai alla Società Nazionale di Neuroscienze, che allora aveva ripartito il lavoro in tre sezioni: “Brain”, in cui si trattavano le scienze biologiche del cervello, “Mind”, che riguardava le scienze psicologiche e filosofiche, e “Life”, che spaziava dall’antropologia alle scienze umane, con particolare attenzione per l’arte. Naturalmente, non avendo alcuna competenza neurobiologica o psicologica, entrai a far parte della sezione “Life”, dove fui subito colpita dall’aria che si respirava: alta cultura resa leggera dall’entusiasmo dei protagonisti; persone in grado di esserti maestre in molte discipline e conoscenze, ma pronte ad ascoltarti con l’attenzione del più promettente degli allievi. Non era solo questo. Le ragioni del fascino erano molte e, cercando di comprenderle, mi venne in mente il discorso di benvenuto del presidente ai nuovi soci, in cui l’intelligenza era declinata in termini di flessibilità e il procedere del singolo, errori compresi, come un vantaggio per tutti. La serenità, unita al desiderio di perseguire uno scopo comune e alla consapevolezza di ciascuno di poter contare sull’altro - mi dissi e mi dico ancora - può fare miracoli.

Ma cosa li rendeva, pur nella differenza fra singoli, tutti così speciali?

Era evidente l’assenza di pregiudizio ideologico o culturale nutrita da un rispetto vero, sincero, spontaneo, naturale, come in genere si nota in quelle persone alle quali si riconosce, con un’espressione antiquata ma sempre efficace, un “animo nobile”. E, nei colloqui e nei dibattiti, dai quali traevo sempre insegnamenti, spunti per riflettere e linfa per trasmettere a mia volta quel poco che ritenevo di poter donare, emergeva qualcosa di prezioso. Una libertà di pensiero non confusa con l’arbitrio assoluto del singolo - che avrebbe rischiato di trasformare l’associazione in un contenitore informe di una miscela eterogenea, incongrua e incomprensibile - ma sostanziata nella possibilità di elaborare opinioni personali su fatti oggettivi e sviluppare proprie tesi con rigore logico e sulla base di valori umani condivisi.

Uscita dalla prima riunione organizzativa della sezione “Life”, ero così soddisfatta e motivata che investii delle mie idee la prima persona conosciuta che incontrai per strada: un anziano e stimato professore universitario in pensione che, dopo avermi ascoltato fra lo stupore e la sorpresa, inserendosi nella prima brevissima pausa fisiologica del mio inarrestabile flusso locutorio, esclamò: “Ma che c’entri te con le neuroscienze?” “Già, che c’entro?”, risposi, “vedremo, vedremo!”, conclusi.

Nella mia realtà quotidiana vi erano state, fino a quel momento, due tipi di esperienze dominanti, con le quali, mio malgrado, dovevo fare i conti.

Da una parte, quella accademica, vi erano persone intrise di un ateismo militante, spesso spacciato per equilibrato agnosticismo, tutte impegnate a dimostrare la propria indipendenza di giudizio, usando in modo spesso convenzionale e a volte creativo, logori strumenti ideologici, che consentivano loro di simulare competenza in ogni forma di illusione della vita, nascondendo un fondo spesso nichilista e disperato. Dall’altra parte, quella che va dalla soglia di casa al supermercato, passando per la televisione, il nulla della superficialità che parla di se stessa, prendendosi sul serio fino al punto da esibire competenze di “alto livello” nell’ultimo ritrovato in fatto maquillage, moda, chirurgia estetica, vita privata delle persone ricche, e così via. In mezzo, tragedie silenziose e ignorate, o vendute e comprate numerose volte dai media, fino a snaturarle in un prodotto irricevibile e indigesto.

Fino ad allora, avevo incontrato persone che lucravano su altre, o che, ad esempio, sfruttavano la beneficenza per crearsi un’immagine da impiegare per affari, la cui riuscita ne avrebbe aumentato il potere, consentendo loro di “acquistare”, per sé o per i propri figli, cattedre universitarie, poltrone parlamentari o da dirigenti di aziende di Stato, di grandi banche o grandi imprese.

Per ciò che ne sapevo, e che potevo direttamente esperire in Toscana, isole felici sembravano essere alcune associazioni giovanili, ma più per la purezza degli intenti e l’entusiasmo dei partecipanti, che per gli scopi perseguiti, i metodi adottati e i risultati ottenuti. D’altra parte, non ero più giovane da troppo tempo.

Ero in questo momento di “transizione esistenziale” quando ho sentito e visto nella sua realizzazione dirompente e coinvolgente un progetto di impegno intensissimo e quotidiano, di persone che non perdevano tempo a farsi conoscere o a rendere noti i risultati conseguiti senza alcun finanziamento pubblico, ma studiavano, ricercavano, insegnavano e trasmettevano ciò che avevano acquisito e compreso, senza secondi fini di carriera o potere, senza presentarsi ad alcuna ribalta televisiva o vetrina giornalistica per esibire il proprio operato. Un sito web dove nessun professionista sciorinava gli atti del proprio curriculum per riempire lo studio privato e, per i primi tempi, non vi apparivano nemmeno le firme dei recensori delle ricerche pubblicate settimanalmente, perché si volevano far emergere e donare i contenuti della ricerca neuroscientifica, non usarli come strumento di autopromozione. Fatti concreti, nella semplicità di valori realizzati senza orpelli.

Ho provato subito attrazione, desiderio di appartenere e, in qualche modo, contribuire alla riuscita di questa meravigliosa impresa sostenuta dal lavoro gratuito di scienziati, ricercatori e studenti; così, pur essendo una studiosa di storia medievale e moderna, non mi ero chiesta: “Che c’entro io con le neuroscienze?”

Di certo sapevo che non ne potevo più della cultura che mi era stata “democraticamente imposta” da una “maggioranza deviante” che si era sostituita a quella, se mai esistita, che avrebbe egemonizzato la cultura italiana dall’Ottocento. I custodi di questa ortodossia, bene occultati dai panni laceri e dimessi delle forme espressive delle avanguardie filosofico-letterarie e dalla dichiarazione di sperimentalismo, esaurito dall’uso di maniera di espressioni quali “cantiere aperto”, “work in progress” e, in sedi più narrative, dalla calcolata collocazione di termini di gergo ideologico e di qualche parolaccia di moda indicatrice di “libertà laica”, non avevano più nulla da dire. Nulla che non risultasse alle mie orecchie come il risuonare di formule logore, stanche, talvolta anacronistiche, sempre sottoculturali.

Non sopportavo più, questi padroni delle “merci di sapere” più vendute e comprate: avevo sviluppato un’idiosincrasia intensa e irreversibile, le cui ragioni profonde mi apparvero improvvisamente chiare all’ascolto di un’analisi lucida e incisiva che Giuseppe Perrella aveva proposto in un incontro seminariale, dal quale estraggo a mente qualche brano.

I custodi dell’ortodossia volevano che leggessimo Adorno, assumendolo come un assoluto, come era accaduto a loro, perché forse vuoti di cultura o svuotati da quella perdita di speranza che rende acritici perché abulici. Mi spiego. O, almeno, ci provo. In Minima moralia, Theodor Adorno chiamò “bestie bionde” le “SS”, attribuendo alla loro natura di piccoli borghesi la ferocia dei loro eccidi. Avevano impresse nella loro mente idee come queste, e volevano che fossero scolpite nelle nostre.

Al seminario sull’Arte del Vivere facemmo un’analisi critica di questo passo: “Se i piccoli borghesi tedeschi si sono dimostrati «bestie bionde», non è per via di particolari caratteristiche nazionali, ma perché, di fronte all’abbondanza manifesta, la bestialità bionda, la rapina sociale, è diventato l’atteggiamento dell’arretrato, del cieco filisteo, di quello stesso «inferiore» contro cui è stata inventata la morale dei signori. Cesare Borgia, se risuscitasse oggi, somiglierebbe a David Friedrich Strauss e si chiamerebbe Adolf Hitler”[1].

I custodi dell’ortodossia ideologica insegnavano tendendo un filo costruttore e distruttore, allo stesso tempo: costruttore di una ferrea logica interpretativa fondata su idee tanto assolute quanto indimostrate, e distruttore del quadro di senso umano, reale e contingente della storia, con la sua specifica antropologia, con la forza delle abitudini, dei colori, dei costumi, dei gerghi, dei dialetti, delle mentalità, delle forme e dei gesti quotidiani. Tutto distrutto, perché l’ideologia lo riteneva ininfluente o fuorviante; tutto eliminato, per mostrare quella che sarebbe stata la verità: il peccato di essere borghesi; un peccato che rende uguali, qualunque sia la storia personale, il vissuto, i desideri, i sogni, le speranze, l’essere stato vittima o carnefice.  Su questo tema, avevo letto e ascoltato, numerose volte, belle parole in alcuni eleganti ragionamenti, che nascondevano un’ottusa ignoranza ed una incapacità di leggere e considerare alcune proprietà dell’uomo e qualità della storia.

Intanto, conobbi gli scienziati e mi resi conto che erano tanto diversi da quei pericolosi e incontrollabili depositari di conoscenze potenzialmente nocive e distruttive, dipinti dai maître à penser nostrani. Per costoro, sembrava che la scienza fosse il male assoluto, in grado di distruggere una umanità intrinsecamente buona, ecologista e solidale, come voleva una sorta di “mito del buon selvaggio”, in versione terzo millennio.

Un modo di pensare ancora esibito in libri, convegni e lezioni universitarie, e che aveva visto convergere vari filoni ideologici. Per costoro non erano gli uomini del grande potere politico ed economico mondiale, i tiranni di singoli stati, gli interessi delle grandi consorterie transnazionali e criminali che legano il traffico di armi e droga al potere finanziario, ad usare scienza e tecnologia per fini distruttivi o con effetti nocivi, ma era la scienza personificata, come un demone, ad impossessarsi delle coscienze, suggerendo loro cose nefande e nefaste.

Interpretazioni, anche in parte malintese, della scuola di Francoforte, si erano irrigidite in formule e concezioni custodite e venerate come un vangelo, protetto da un armamentario che andava dalla scomunica politica, ai sorrisini di superiorità e agli sguardi di compassione per l’ingenuo malcapitato di turno, che mostrava di ignorare la “verità” del male insito nella scienza.

Era ed è una forma culturale di delirio, per la sua distanza dalla realtà.

Nella realtà, invece, avevo incontrato giovani precari o volontari non pagati, abilissimi nelle pratiche di laboratorio, ricchi di nozioni, idee e sogni, e animati dal desiderio di fare scoperte utili per la collettività; avevo poi conosciuto anziani gentiluomini e gentildonne della ricerca, che per contenuti e stile non sfiguravano al confronto con la Montalcini e che vantavano la frequentazione di laboratori come quello di Giuseppe Levi, dal quale erano venuti tre premi Nobel e nessuna minaccia per il pianeta.

I cattivi maestri avevano in parte demolito il mio immaginario che la realtà cui mi ero avvicinata stava ricostruendo, nutrendolo di realtà ed attualità vissuta e condivisa.

Eravamo affascinati dall’idea moderna, che era stata propria di grandi del Rinascimento come Leonardo da Vinci, e che dopo due secoli, quando con Galileo la scienza aveva acquisito una precisa identità fondata sul metodo, si era consolidata nelle forme di un immaginario già prossimo a quello attuale, l’idea - dicevo - che la passione per la conoscenza potesse cambiare la propria vita e quella degli altri.

Ci incontravamo a Firenze, un po’ meno a Roma e a Torino, e il luogo aveva dichiaratamente una valenza simbolica ed evocativa, che andava dalla realizzazione di un cambiamento esistenziale attraverso la stessa aggregazione e il sodalizio, riportandoci all’Accademia fiorentina, alla definizione condivisa delle priorità al fine di perseguire scopi più alti di quelli legati alla sussistenza quotidiana. Si prendevano a modello o per oggetto di riflessione e dibattito, nobili associazioni scientifiche del passato ed ancora esistenti, quale quella dei Fisiocritici, o scomparse, ma di cui si voleva raccogliere l’eredità.

In breve, sono diventata una di loro. Forse, senza saperlo, lo ero sempre stata. Volevamo creare uno “spazio di azione condiviso e fondato su principi comuni”, per dirla con i soci fondatori, ma forse in questi dieci anni si è riusciti ad andare anche un po’ oltre, realizzando una sorta di laboratorio per riconoscere, sviluppare ed educare una sensibilità, il cui esercizio può renderci migliori.

Da quanto ho detto, si comprende che la nostra avversione per la mercificazione del sapere e per tutti gli aspetti della vita assoggettati alle leggi del mercato, non nasce da una reazione istintiva ad una imposizione sociale, ma dal sincero credere nel valore umano di tutte quelle realtà che in tal modo erano e sono state svilite, e dal bisogno di liberarsi da condizionamenti, costrizioni ed appiattimenti che impediscano di esercitare il potere di usare le risorse intellettive per conoscere il non conosciuto e trasmettere al maggior numero di persone possibile le nuove conoscenze.

Il sapere tecnico lo comunichiamo a coloro che già se ne occupano o seguono una via che li porterà ad occuparsene; la conoscenza che deriva dall’esperienza cerchiamo di trasmetterla a tutti coloro che vogliano ascoltarci. Esempi efficacemente eloquenti di queste due forme di attività, credo siano stati, in questi anni, il “Seminario sulle sinapsi” e il “Seminario sull’Arte del Vivere”.

Non menzionerò alcuna delle innumerevoli attività ed iniziative di questo decennio, anche perché solo elencarle ed illustrarne brevemente i contenuti e gli scopi richiederebbe lo spazio di un ponderoso tomo, mi limito solo a ricordare le categorie principali dell’attività di routine: aggiornamenti tematici, journal clubs, discussioni su opinioni correnti nelle neuroscienze, partecipazione a programmi di formazione neuroscientifica internazionali, convegni di studio quindicinali, incontri di supervisione dei “gruppi strutturali” della società, didattica specialistica in discipline neurobiologiche, seminari permanenti e periodici, recensioni delle nuove ricerche pubblicate settimanalmente nella sezione “Note e Notizie” del sito.

Avviandomi alla conclusione, dopo questo esercizio di memoria e consapevolezza, sento sorgere quasi naturalmente in me l’interrogativo che in passato, esprimendo la curiosità di altri, mi aveva raggiunta come domanda, cogliendomi impreparata: ma, davvero, che c’entro io con le neuroscienze? Apparentemente nulla, ma grazie a “Brain, Mind & Life”, mi sono resa conto che le neuroscienze c’entrano con me, con noi, con tutti; perché si occupano del fondamento della nostra esistenza, e sono ansiose di darci nozioni scientifiche e ricevere esperienze umane.

Congedandomi, vi chiedo scusa se mi sono un po’ lasciata andare in questa espressione sincera, ma forse un po’ troppo spontanea e personale, del mio pensiero e della mia esperienza, ma la ragione, che avete certamente già compreso, è che il mio entusiasmo è rimasto quello del primo giorno, e la speranza, divenuta certezza, che la passione del singolo possa nutrire la forza di tutti, mi giustifica nel donarvi queste parole, per dire, a voi e a noi, la stessa cosa: auguri!

 

Monica Lanfredini

BM&L-26 gennaio 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] AdornoT., Minima moralia (1954 su edizione del 1951), p. 107, Einaudi, Torino, ristampa 1994.