Psilocibina: miti e realtà sulle virtù terapeutiche di un allucinogeno

 

 

LUDOVICA R. POGGI & GIUSEPPE PERRELLA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XI – 14 settembre 2013.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

1. Introduzione. Da quando le istituzioni statunitensi preposte al controllo hanno ridotto le restrizioni per l’impiego sperimentale di molecole allucinogene come la psilocibina, sono stati condotti vari studi clinici, dai quali sono emerse nuove prospettive per il trattamento degli stati depressivi in ammalati terminali o affetti da patologie gravi in stadio avanzato. Alcuni studiosi italiani hanno però rilevato che, nella più recente pubblicistica scientifica e divulgativa, l’interpretazione dei risultati sperimentali appare talvolta eccessivamente ottimistica o non equilibrata nella valutazione degli elementi negativi e positivi. A ciò si aggiunga che l’interesse economico delle case farmaceutiche ha sostenuto la creazione di una categoria nosografica quanto meno discutibile, come lo “stato di deficit spirituale”, alla quale si collega l’indicazione di psilocibina, LSD e loro derivati, come “farmaci specifici”.

Sulla base di queste considerazioni, la Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia ha riconosciuto l’opportunità di studiare l’argomento e proporre uno scritto introduttivo che fornisca, in una sintesi non influenzata da interessi materiali e tesi preconcette, dati essenziali di conoscenza e spunti per una riflessione finalizzata ad una costruttiva discussione critica.

Forse il titolo di questo articolo può apparire un po’ pretenzioso, o magari suggerire a qualcuno l’idea di una trattazione esaustiva della materia che riguarda questa molecola: non era nelle intenzioni degli autori, e il testo, inclusa l’indicazione di “miti e realtà”, vuole costituire una traccia e un punto di partenza per un approfondimento che sarà condotto da un gruppo di studio specificamente costituito per tale scopo.

Tutta la vicenda che ha riguardato nell’ultimo mezzo secolo lo studio sperimentale di sostanze in grado di alterare la coscienza e produrre visioni impressionanti alla prima assunzione, si è svolta principalmente negli Stati Uniti d’America, pertanto sarà opportuno prendere le mosse da quanto è accaduto in quel paese.

Negli USA, verso la fine degli anni Sessanta, la diffusione di allucinogeni quali LSD e psilocibina, come sostanze psicotrope d’abuso, aveva raggiunto livelli estremamente elevati e il numero di morti, direttamente o indirettamente causate, tendeva a crescere costantemente. A differenza dell’eroina, che aveva trovato un fiorente mercato criminale anche negli strati sociali più disagiati, gli allucinogeni erano di moda fra gli studenti universitari ed erano associati ad una ideologia e ad uno stile di vita interpretato dagli hippies, o figli dei fiori, e da altri gruppi giovanili che propugnavano un ritorno alla vita naturale contro il potere politico-economico istituzionalizzato, apparentemente fondato su forme esasperate di consumismo e competizione. Fra le cause di morte accidentale più strazianti vi erano quelle di giovani che, credendo di poter volare, precipitavano da balconi, finestre, terrazzi, o si lanciavano a tutta velocità in mare con l’auto o con la moto da un ponte, certi di poter saltare sul ponte successivo. La polizia rubricava spesso questi casi come suicidi, anche se non si reperivano segni dell’intenzione di togliersi la vita. Automutilazioni, comportamenti bizzarri e condotte che provocavano la morte altrui in stati di esaltazione collettiva, non erano rari. In molti casi la responsabilità degli allucinogeni in eventi criminosi è emersa solo dopo anni, grazie a supplementi di indagine nel corso di inchieste o processi. Negli anni Settanta le autorità statunitensi decisero la proibizione di qualsiasi forma di detenzione o impiego di queste sostanze, allo scopo di facilitare il controllo da parte degli organi di polizia e porre fine a questa mostruosa e silenziosa strage.

Nel tempo trascorso fra la caratterizzazione chimica e la tassativa esclusione di ogni forma di uso, compresi gli scopi scientifici, molecole allucinogene sono state somministrate a circa 40.000 persone partecipanti alle ricerche in qualità di volontari. La rilettura di quei lavori ci mostra risultati significativi e promettenti nell’aiutare, ad esempio, gli ammalati terminali ad affrontare il dolore fisico, la paura, l’ansia, la tendenza all’isolamento psicologico e, nel complesso, i sintomi di una depressione reattiva.

All’incirca venti anni fa, all’inizio degli anni Novanta, la FDA (Food and Drug Administration) e il National Institute on Drug Abuse (USA) hanno ridotto il rigore assoluto delle norme in materia di allucinogeni, consentendo la ripresa delle indagini scientifiche, con conseguenze in molti paesi del mondo. Da quel momento, e particolarmente negli anni più recenti, è cominciata una nuova era in questo studio, con un background di conoscenze scientifiche enormemente più vasto, soprattutto per gli straordinari progressi compiuti dalle neuroscienze di base, ma anche per una maggiore consapevolezza circa l’entità e il potenziale rilievo di tutto ciò che ancora non conosciamo, di neurobiologia in generale e del meccanismo d’azione di queste molecole in particolare.

Charles S. Grob, ricercatore del Medical Center dell’Università della California a Los Angeles (UCLA), che fu un pioniere della ricerca sulla psilocibina quarant’anni fa ed è nuovamente impegnato in questi studi, ha definito l’effetto della molecola allucinogena, nei volontari da lui esaminati, una “epifania psicospirituale”. Proviamo a verificare, alla luce di quanto si conosce, se un tale apprezzamento entusiastico abbia un fondamento scientifico e una giustificazione razionale.

 

2. Cenni storici sulle origini, elementi di chimica e farmacologia. L’esistenza e le proprietà di funghi contenenti molecole allucinogene ci sono state trasmesse dalle culture indigene del continente americano che, sulla base di antichissime esperienze, avevano sviluppato cerimoniali mistico-magici di interesse antropologico, nel corso dei quali le sostanze psicoattive erano impiegate anche con scopi curativi. Gli Aztechi del Messico e di altre aree dell’America Centrale chiamavano i funghi contenenti psilocibina, nella loro lingua, teonanàcatl, termine che dovrebbe essere correttamente tradotto con “carne del dio della folgore e della pioggia”, ma che in articoli recenti è reso in inglese con flesh of the gods, “carne degli dei”.

Dopo la scoperta dell’America, l’assunzione dei funghi allucinogeni da parte dei nativi si diffuse oltre il limite delle cerimonie rituali ed interessò anche i conquistatori europei.

Le prime notizie sui “funghi sacri” furono portate in Europa nel XVI secolo, insieme con quelle relative al peyotl[1], dal frate francescano Bernardino da Sahagun e da altri storiografi spagnoli, quali il domenicano Diego Duran, il gesuita Jacinto de la Serna e Francisco Hernandez[2].

Nel XVII secolo, l’Inquisizione spagnola[3] condannò l’uso di teonanàcatl e proibì i riti di guarigione magica basati sull’alterazione della coscienza. Tracce storiche dei tre secoli successivi indicano l’eradicazione dei rituali che, invece, erano divenuti clandestini. L’uso cerimoniale, testimoniato da affreschi e sculture presenti in case private e nei musei di Città del Messico, e documentato da dettagliate descrizioni botaniche (Schultes, 1839)[4], è stato infatti tramandato di generazione in generazione fra gli indios messicani, fino ai nostri giorni. Alcuni farmacologi si sono chiesti perché durante tutta la prima metà del Novecento la ricerca non abbia indagato in questo ambito. Probabilmente due fattori hanno avuto un ruolo decisivo nell’inibire lo studio sperimentale: la mancanza di dati certi sulle specie fungine e gli aneddoti sulle cerimonie segrete, apparentemente contraddittori e irrealistici, che riferivano di effetti magici con il conferimento di poteri di vaticinio o telepatici, accanto ad eventi mortali.

In genere si indica come punto di svolta per l’inizio dell’interesse scientifico il 1955, anno in cui apparve sulla rivista di attualità Life un articolo che fece grande scalpore, giungendo anche all’attenzione dei ricercatori. Secondo quanto si riporta nelle trattazioni scientifiche recenti, lo scritto si basava su un resoconto di R. Gordon Wasson, un banchiere con la passione per la micologia che, in un viaggio in Messico, era entrato in contatto con una comunità di nativi dai quali aveva ottenuto il permesso di assistere ad una cerimonia di guarigione rituale[5]. Vale la pena approfondire brevemente questa vicenda, perché si legge spesso dell’identificazione dei funghi contenenti psilocibina come della fortunata avventura di un dilettante; si trattò invece di un perfetto lavoro preliminare di farmacognosia, sebbene non condotto da micologi professionisti.

I coniugi americani, R. Gordon Wasson e Valentina Petrovna Wasson, riuscirono a portare a termine con successo, in un remoto villaggio della Sierra Mazateca nello stato di Oaxaca, le loro ricerche sui “funghi sacri” e sulla loro importanza nella storia delle religioni e nell’etnografia comparata. Il progetto dei coniugi Wasson aveva avuto inizio due anni prima, prendendo le mosse dalle indicazioni fornite loro da una missionaria statunitense, Eunice V. Pike, che aveva assistito ai riti dei discendenti delle popolazioni azteche, ed aveva riferito della partecipazione di persone già convertite al cristianesimo. Questa informazione sostenne i Wasson nei loro tentativi di penetrare il mistero di riti segreti che si riteneva fossero riservati esclusivamente agli adepti.

Wasson ottenne di farsi includere, con l’amico Allan Richardson, in un gruppo che, nella modesta casa di una curandera, pose in essere un complesso cerimoniale, al termine del quale furono consegnate sei paia di funghi allucinogeni a ciascuno dei partecipanti, perché li mangiasse secondo le modalità prescritte, ossia con estrema lentezza e grande solennità. In una oscurità quasi completa, mezz’ora dopo, Wasson e Richardson cominciarono ad avere visioni interiori vivide, estremamente plastiche e dinamiche, seguite da allucinazioni visive.

Un aspetto difficilmente descrivibile sulla base dei criteri della semeiotica psichiatrica classica, riguardava un’alterazione della coscienza e del pensiero sperimentata soggettivamente, ma in grado di influenzare anche le persone con le quali coloro che avevano assunto i funghi allucinogeni entravano in rapporto. In certi momenti, alcuni ritenevano di poter udire i pensieri degli altri, trasmettere il proprio pensiero senza ricorrere alla parola, entrare in comunicazione da mente a mente, anche a distanza di migliaia di chilometri e, perfino, vedere con gli occhi della mente la vita di altre persone, con una sorta di psico-telescopia guidata da informazioni sul luogo di residenza o sull’identità delle persone da osservare. Wasson stesso fu influenzato da questa esperienza, al punto di cercare conferma del possesso di queste fantasiose facoltà parapsicologiche da parte degli assuntori abituali: chiese, infatti, ad uno degli adepti del gruppo dei rituali teonanàcatl, immerso in un stato di “estasi profetica”, di riferirgli ciò che in quel momento stesse facendo suo figlio nella sua abitazione di New York. Il rapporto del “nativo” sotto l’effetto della psilocibina, secondo quanto riferito dallo stesso Wasson, si rivelò “magicamente vero”[6].

Qualche anno dopo, Wasson propose a Roger Heim, botanico francese che dirigeva il Museo Nazionale di Storia Naturale del suo paese, di indagare insieme questo settore della micologia.

Heim e Wasson collezionarono ed identificarono le famiglie di Strophariaceae del genere Psilocybe contenenti la sostanza in grado di indurre effetti psicodislettici, e decisero di inviarne dei campioni in Svizzera ad Albert Hoffmann, un chimico di Basilea assurto a fama internazionale nel 1938 per aver sintetizzato la dietilamide dell’acido lisergico (LSD)[7] dall’ergotamina[8], isolata da Arthur Stoll.

Nel 1958 Albert Hoffmann riuscì ad identificare ed isolare, dai campioni ricevuti, due molecole di alcaloidi attivi: la psilocibina e la psilocina, determinandone la struttura chimica.

La psilocibina è infatti un alcaloide naturale presente in molte varietà di funghi, ma più spesso estratta da Psilocybe mexicana. Chimicamente è un derivato indolico[9] assimilabile al neurotrasmettitore serotonina (l’indolalchilamina 5-idrossitriptamina o 5-HT), con un anello benzenico legato ad uno pentanico contenente azoto, e può considerarsi un derivato della psilocina o 4-idrossi-N-dimetiltriptamina, in quanto suo estere fosforico. Appena ingerita, la psilocibina viene rapidamente trasformata in psilocina; dunque, in termini metabolici, è la molecola non fosforilata a derivare dalla forma fosforilata. L’intensa reazione fisiologica innescata dalla psilocina è strettamente legata all’interazione con tre recettori della serotonina, fra questi i 5-HT2A hanno attratto il maggior interesse dei ricercatori. Un breve approfondimento su questa sottoclasse recettoriale è proposto nel paragrafo seguente, che il lettore non specialista potrebbe saltare, andando direttamente al successivo sugli effetti e le basi neurali dell’azione psicotropa della psilocibina.

 

2.1. Breve aggiornamento sui recettori della serotonina 5-HT2A. Per facilitare la comprensione dei dati emersi dagli studi recenti e fornire un supporto alla speculazione interpretativa sul ruolo di questa sottoclasse recettoriale nel meccanismo d’azione della psilocibina, si propone un aggiornamento sintetico sui recettori 5-HT2A.

Per quanto riguarda la localizzazione e la distribuzione, questi recettori sono numerosi sulla membrana delle cellule post-sinaptiche dei neuroni serotoninergici, con una concentrazione particolarmente elevata nella corteccia frontale. I 5-HT2A sono stati reperiti in alta densità anche nel claustro, nel sistema limbico e nei nuclei della base.

In particolare, il claustro o antemuro, è una lamina di materia grigia situata subito sotto la corteccia, fra l’insula e la superficie esterna del nucleo lenticolare, di cui si conosce da tempo il collegamento con le aree visive, ma che è risultata connessa con tutte le principali aree sensitive e motorie della corteccia e con i nuclei dell’amigdala. Francis Crick e Christof Koch hanno ipotizzato che il claustro sia il mediatore dell’unitarietà della coscienza, della sua intima natura di funzione integrata. Se tale ipotesi troverà conferma sperimentale, si potrebbe riconoscere nella presenza di un gran numero di 5-HT2A nei neuroni del claustro una base molecolare degli effetti della psilocibina sulla coscienza. Per ciò che concerne il cosiddetto sistema limbico, la massima concentrazione di questa sottoclasse recettoriale è stata reperita nell’amigdala e nell’ippocampo; nel corpo striato la densità risulta notevole in varie aree.

In termini cellulari, nella corteccia i 5-HT2A sono localizzati sia sugli interneuroni GABAergici inibitori, sia sui neuroni piramidali di proiezione eccitatori glutammatergici. La notevole espressione di questa sottoclasse recettoriale della serotonina in tutta la corteccia cerebrale, indica un probabile ruolo nelle funzioni cognitive di più alto livello.

Esperimenti di attivazione di questi recettori nel sistema nervoso centrale hanno determinato un marcato incremento della temperatura corporea (ipertermia) ed aumentata secrezione dell’ormone dello stress ACTH. Alla periferia dell’organismo i recettori 5-HT2A mediano la risposta della muscolatura liscia intrinseca dei vasi e una componente della risposta contrattile della muscolatura liscia intestinale alla serotonina.

La sottoclasse 5-HT2A si ritiene specificamente implicata nella genesi degli effetti allucinogeni indotti dagli agonisti recettoriali dei 5-HT2.

Un filone di ricerca seguito da molti gruppi, riguarda il ruolo dei 5-HT2A nel meccanismo d’azione di farmaci antipsicotici. Si ricorda che molecole come la clozapina, l’olanzapina ed altre simili, sono antagonisti della serotonina con alta affinità per i 5-HT2A.

Una questione di grande attualità, che ha acceso un dibattito interessante, riguarda l’esistenza di un sottotipo di 5-HT2A non ancora precisamente identificato. Un derivato dell’amfetamina con proprietà allucinogene, il [3H]-DOB, agisce da agonista e si lega ai siti recettoriali dei 5-HT2A con proprietà simili a quelle dell’antagonista [3H]-ketanserina: questo dato, insieme con altri, è stato interpretato da alcuni ricercatori come un’evidenza dell’esistenza di un sottotipo non ancora identificato di 5-HT2A; al contrario, altri vi hanno visto la prova dell’esistenza di “stati di alta e bassa affinità” per gli agonisti del recettore noto.

Per dirimere la controversia è stata impiegata la clonazione del recettore 5-HT2A. In esperimenti di transfezione in cui il cDNA codificante il recettore è stato trasferito in cellule clonali, sono stati trovati i siti di legame sia per l’antagonista [3H]-ketanserina dei 5-HT2A, sia per la molecola agonista [3H]-DOB dei 5-HT2. In altri termini, un singolo gene produce una proteina recettoriale con la possibilità di legare sia gli agonisti che gli antagonisti, fornendo supporto all’ipotesi che il legame di agonisti ed antagonisti avvenga grazie a due stati differenti della stessa molecola e non a due sottotipi di 5-HT2A.

Un ultimo aspetto che riguarda questi recettori è il rapporto con alcuni disturbi mentali, in particolare un loro numero più elevato negli stati e nelle sindromi dello spettro della depressione.

 

3. Effetti sulla fisiologia cerebrale e ipotetiche basi neurali dell’azione psicotropa. La psilocibina, come si è già rilevato, viene rapidamente convertita in psilocina, la quale si lega, oltre che ad altre due classi recettoriali, ai 5-HT2A, in luogo della serotonina endogena. Proprio a questo legame si attribuisce l’effetto positivo sull’umore esercitato dalla molecola. Questa sottoclasse recettoriale medierebbe processi legati alle componenti neurofisiologiche negative degli stati depressivi, in particolare l’atteggiamento mentale di fondo e l’ideazione. Studi condotti su tessuto cerebrale prelevato all’esame necroscopico del cervello, nel corso di autopsia di pazienti depressi e suicidari, ha rivelato un maggior numero di 5-HT2A rispetto ai cervelli di persone non affette.

Il perdurare degli effetti di una singola dose di psilocibina, in particolar modo sul cervello delle persone depresse, è in genere attribuito alla capacità dell’esperienza indotta dalla molecola di generare una conoscenza psicologica che contribuirebbe ad innescare processi positivi. Per inciso, uno di noi ha da tempo riservato particolare attenzione all’effetto di cambiamento del “quadro mentale” innescato da una dose adeguata della sostanza. La base molecolare o almeno una delle basi molecolari di tale effetto prolungato, potrebbe consistere proprio in un cambiamento indotto nei recettori 5-HT2A. La deduzione si basa sui risultati di una recente sperimentazione animale con un altro potente agonista di questi recettori, la droga allucinogena LSD o dietilammide dell’acido lisergico. La LSD è risultata in grado di agire in maniera drastica sull’espressione dei 5-HT2A, producendo una notevole e prolungata riduzione del loro numero sulla membrana dei neuroni post-sinaptici. Con ogni probabilità la psilocibina agisce allo stesso modo.

Per ciò che riguarda gli effetti studiati al livello della fisiologia dell’encefalo, si è assunto, basandosi su prove indirette e deduzioni, che l’azione psicotropa della psilocibina si esplichi mediante un aumento del flusso di sangue in varie aree cerebrali rilevanti per i processi psichici. Non è però stato spiegato in modo soddisfacente e documentato, in che modo un accresciuto volume ematico, e perciò un maggiore supporto trofico all’attività neurale, si renda responsabile di sintomi psichici che sembrano derivare da una perdita della normale integrazione dei sottoprocessi, con modificazioni quantitative e qualitative.

In contrasto con l’ipotesi dell’aumentato flusso, i risultati ottenuti lo scorso anno da Robin L. Carhart-Harris dell’Unità di Neuropsicofarmacologia dell’Imperial College London e dai suoi colleghi, hanno sorpreso la comunità neuroscientifica per la chiara evidenza con cui indicano un processo diverso e perfettamente coerente con i principi classici e le nozioni recenti di neurofisiologia cerebrale[10]. I ricercatori hanno indagato mediante risonanza magnetica funzionale (fMRI, da functional magnetic resonance imaging) l’encefalo di volontari nel corso della manifestazione degli effetti della psilocibina, individuando i correlati neurali di quello che hanno chiamato “stato psichedelico”.

Le principali regioni cerebrali associate alla coscienza e al concetto di Sé presentavano una riduzione del flusso ematico del 20%, materialmente confutando la tesi dell’accresciuto apporto ematico. Le immagini rilevate da Carhart-Harris e colleghi consentono di spiegare l’esperienza di “dissoluzione dell’Io” tante volte riferita dagli assuntori di psilocibina. Un ridotto apporto trofico avrebbe l’effetto di indebolire i vincoli interni che collegano in una integrazione coerente processi di base del cervello - spesso descritti in termini di filtro e classificazione - responsabili della normale elaborazione di stimoli del mondo esterno ed interno e della fisiologia di pensieri e sentimenti. La configurazione delle connessioni prioritarie per le funzioni dell’Io, presenta parti variabili che consentono un’espressione adatta alle circostanze e, per questo motivo, maggiormente dipendente dal flusso ematico richiamato ad hoc dall’attività neuronica. A nostro avviso, questa ragione potrebbe spiegare effetti così marcati come la sensazione del dissolversi delle proprietà che consentono al soggetto di riconoscersi come identità.

Consideriamo ora alcuni dettagli degli aspetti più rilevanti emersi da questo studio.

I ricercatori hanno concentrato l’attenzione sulla rete di default (DMN, da default-mode network), un insieme di regioni cerebrali la cui attività appare strettamente associata al senso di sé, all’autocoscienza e a funzioni dell’Io. La DMN è attivata dall’introspezione, dalla rielaborazione rimuginativa tipica della depressione, dall’assetto mentale introspettivo e dalla restrizione del pensiero ad un singolo oggetto o tema di rilievo affettivo o emotivo. In particolare, in precedenti studi è risultato che un’attività mentale simile al rimuginare è strettamente associata sia all’iperattività che alla connettività della DMN. Al contrario, una tendenza all’estroversione con un atteggiamento superficiale e distratto, sembra determinare una riduzione di attività della DMN.

Nel cervello dei volontari in perfette condizioni di salute psichica, studiati mediante fMRI da Carhart-Harris e colleghi, la psilocibina ha prodotto un netto ed evidente calo funzionale nella DMN.

In questa rete è di estrema importanza il rapporto funzionale fra due particolari regioni: 1) la corteccia prefrontale mediale (mPFC, da medial prefrontal cortex) e 2) la porzione posteriore della corteccia della circonvoluzione del cingolo, o corteccia cingolata posteriore (PCC, da posterior cingulate cortex). La mPFC è posta nella parte più anteriore del cervello, al davanti del corpo calloso e in prossimità della linea mediana. La PCC è situata fra la parte mediana e quella posteriore del cervello, anch’essa non distante dal piano sagittale mediano. La funzione della DMN prevede che queste due regioni, con ruoli molto diversi, siano attivate di concerto, in un modo che è stato paragonato a quello del primo violino e del timpano in un’orchestra sinfonica. Ebbene, la psilocibina ha determinato nei volontari una notevole perdita di sincronia fra la mPFC e la PCC, pur non impedendo l’attivazione contemporanea. Verosimilmente alcuni aspetti dei processi[11] svolti da ciascuna area mutano radicalmente, pertanto si può dire, per rimanere nell’analogia musicale, che è come se mancasse il direttore d’orchestra o che gli orchestrali, invece di eseguire la propria partitura di un concerto di Beethoven, si esprimono con una libera improvvisazione.

La psilocibina, dunque, alterando i ruoli funzionali svolti da importanti stazioni di elaborazione della DMN, può interrompere il funzionamento psichico depressivo, ossessivo o patologicamente introspettivo. In tal modo, sembra poter agire rimuovendo la restrizione dell’esperienza psichica messa in rapporto con l’anedonia, ossia con l’apparente incapacità di provare piacere e l’estrema difficoltà ad interessarsi ad argomenti, circostanze, persone od oggetti lontani dal fulcro delle proprie preoccupazioni.

Naturalmente, è importante rilevare che l’effetto terapeutico che si spera di ottenere ha il costo di una perdita o un indebolimento della capacità di anticipazione e del pensiero progettuale legati alla responsabilità che deriva dalla rappresentazione interna della realtà. In altri termini, se è vero che non si prova più dispiacere per essere stati licenziati o non si soffre più per gelosia o per aver subito un torto, è pur vero che lo stato prodotto dalla psilocibina espone al rischio di non preoccuparsi di cercare un nuovo lavoro, di non occuparsi più della persona di cui si era gelosi e non affrontare la circostanza in cui si è subito il torto. Si può obiettare: è una questione di dosi. È vero, ma non è una questione risolta: le dosi efficaci non sembrano essere scevre da questi effetti nelle persone con disturbi ansioso-depressivi come in quelle in buona salute psichica; e poi, stando ai resoconti di cui si dispone attualmente, le variazioni individuali di risposta alle stesse dosi rimangono notevoli.

 

4. Obiettivi clinici nella nuova fase di sperimentazione umana. La proprietà della psilocibina di indurre un cambiamento dello stato di coscienza, verosimilmente quale effetto di un mutamento di pattern funzionale che comporta un diverso rapporto cervello-corpo, è particolarmente interessante in funzione della possibilità di generare uno stato di benessere e di armonia psico-fisica, fine ultimo dei principali protocolli di cure palliative impiegati nei pazienti cronici non guaribili ed afflitti da sofferenza psichica. Il cambiamento positivo non deve però considerarsi un esito costante ed automatico dell’assunzione di una dose efficace del composto indolico. In realtà, l’induzione  di una risposta neurofunzionale positiva da parte dell’alcaloide è una possibilità non ancora bene stimata in termini di probabilità e, soprattutto, non ancora comparata con il rischio di induzione di un turbamento psichico protratto o permanente[12]. Nel numero ancora limitato di volontari che si sono sottoposti all’assunzione, sono incluse persone che hanno sperimentato immagini e pensieri terrificanti, dai quali hanno cercato inutilmente di fuggire.

Il terrore della morte e la perdita di senso della vita, che attanagliano soprattutto coloro che non hanno il supporto di una fede religiosa, aggravano notevolmente le condizioni delle persone negli stadi terminali di patologie ad esito infausto, costituendo una potente giustificazione etica alla sperimentazione di sostanze allucinogene.

Charles S. Grob e colleghi, tra il 2004 e il 2008 presso l’Harbor-UCLA Medical Center, condussero il primo studio clinico contemporaneo sul trattamento mediante psilocibina della depressione reattiva alla condizione di ammalato terminale: 12 pazienti in uno stadio avanzato di malattia cancerosa furono sottoposti ad un’accurata valutazione psicologica e psicopatologica, che accertò l’idoneità a partecipare alla sessione di trattamento sperimentale e definì le condizioni psichiche al momento dell’esperimento. In particolare, furono adoperate scale standardizzate per valutare l’umore, la sintomatologia depressiva e sintomi riconducibili ad un funzionamento paranoide o maniacale.

Tutti i pazienti che presero parte allo studio fecero registrare miglioramenti dell’umore e riduzione dell’ansia dopo le sessioni di somministrazione. Considerando il campione nel suo insieme, gli effetti durarono almeno sei mesi. Tutti i partecipanti sono poi deceduti e l’azione della psilocibina non sembra abbia influito positivamente sulla loro sopravvivenza, tuttavia i risultati di questo studio hanno indotto molti a ritenere opportuna l’introduzione dell’alcaloide nei protocolli di trattamento dei pazienti oncologici terminali, allo scopo di migliorarne la qualità della vita.

La sperimentazione per questa indicazione è proseguita e, fra i maggiori progetti in corso, vi è quello diretto da Roland Griffiths presso il Behavioral Pharmacology Research Unit (BPRU) della Johns Hopkins University School of Medicine.

Il derivato indolico estratto da Psilocybe mexicana è stato parallelamente sperimentato per altre indicazioni. Nel 2005 uno studio-pilota dell’Università dell’Arizona ha mostrato l’efficacia della psilocibina nel trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo grave[13] e della cefalea “a grappolo”. In particolare, i sofferenti del dolore cefalalgico hanno riferito di un’efficacia superiore a quella degli altri farmaci adottati, nell’interrompere il ciclo di ricorrenza del mal di testa.

 

5. Discussione e considerazioni conclusive. La conoscenza scientifica dei composti detti allucinogeni per le loro proprietà psicodislettiche[14] non ha inizio in questi anni, e le esperienze pionieristiche di mezzo secolo fa possono fornire utili indicazioni.

All’inizio degli anni Sessanta, Timothy Leary, fra i primi a studiare gli effetti della LSD sulla psiche umana, riconobbe l’importanza delle condizioni in cui tali sostanze sono assunte, ed introdusse il concetto di set and setting, con il quale intendeva riferirsi allo stato mentale al momento dell’assunzione e alle caratteristiche dell’ambiente in cui avveniva l’esperienza. A differenza di quanto accade per la maggior parte delle molecole psicotrope che si impiegano come farmaci, le sostanze con proprietà psicodislettiche devono a queste due variabili una parte consistente del tipo di alterazioni qualitative che inducono nell’attività psichica. Leary aveva compreso che l’atteggiamento di fondo (mind-set), consapevole e inconsapevole, cognitivo ed emotivo, della persona verso l’esperienza “allucinogena”, poteva notevolmente condizionarne gli sviluppi e gli esiti. Allo stesso modo, la fenomenologia psichica indotta dalla droga, risente delle circostanze e dell’ambiente materiale e relazionale in cui ha luogo l’assunzione. Si pensi a due ipotetici ambienti agli estremi per caratteristiche: una stanza vuota con pareti bianche, priva di mobili ed altri elementi di arredo, ed un ambiente ricco di quadri e sculture surreali, manufatti etnici, animali imbalsamati e persone con le quali si sono avute interazioni dagli intensi contenuti emotivi. Non riesce difficile immaginare che, nel corso delle distorsioni funzionali della percezione, della sua elaborazione psichica e delle produzioni fantastiche che prendono corpo nella mente dell’assuntore, il secondo ambiente possa fornire a chi sia poco sereno elementi e stimoli per un “viaggio” in un mondo popolato di incubi mostruosi.

L’importanza delle circostanze in cui la psilocibina si assume per la qualità degli effetti prodotta è certa e rilevante: ne sapevano qualcosa gli Aztechi che, regolamentando rigidamente tempi, modi e quantità dell’assunzione nell’ambito di un preciso rituale, avevano ridotto al minimo gli effetti estremi e più pericolosi. Del ruolo cruciale di set e setting sono edotti i ricercatori che la sperimentano sull’uomo, al punto che Erica Rex, volontaria in uno studio recente e studiosa autrice dell’articolo al quale ci siamo già riferiti più volte, afferma: “Il valore del farmaco dipende interamente dai sentimenti del paziente e dalle percezioni durante la sessione e dal modo in cui egli o ella elabora successivamente le memorie”[15].

Cosa vuol dire questo in termini neuroscientifici? Vuol dire che è importante lo stato funzionale del cervello al momento in cui la sua fisiologia viene alterata dalla sostanza psicotropa. Ma, nei termini dell’esperienza vissuta, la questione è estremamente delicata: si possono generare, ad esempio, sentimenti di odio in grado di sconvolgere una persona al punto da spingerla a concepire atti estremi mai in precedenza immaginati. Per questo motivo, la sperimentazione viene condotta con un attento monitoraggio psicologico dei volontari. Ad esempio, i volontari del BPRU sono intervistati per ore da quattro diversi psicoterapeuti e dallo stesso Roland Griffiths, coordinatore del progetto[16]; poi, al momento dell’assunzione, in un’atmosfera serena, sono invitati ad ascoltare musica distesi su un comodo sofà.

Per avere un’idea di ciò che accade nella mente di chi assume la capsula color porpora contenente l’alcaloide, consideriamo alcuni aspetti dell’esperienza della Rex.

Nel suo racconto, che assomiglia per certi versi alla narrazione di un sogno ma presenta la precisione di dettaglio di un’esperienza reale, vivida e recente, si fa riferimento ad una ambientazione in uno spazio industriale, dove ha sentito emergere alla coscienza una animosità verso due suoi fratelli. Riferisce di aver visto, seduta all’estremità di un tavolo, una donna vestita di bianco, apparentemente indaffarata, rivolgersi a lei e porgerle un bicchiere di carta, dicendole: “Puoi metterlo qui dentro”. La Rex racconta di aver seguito il suggerimento e di aver visto il bicchiere di carta riempirsi dei suoi sentimenti negativi: “Lo metteremo qui sopra”, diceva la donna vestita di bianco, ponendo il contenitore di odio su un tavolo nella parte posteriore della stanza. Dopo aver visto la donna ritornare a lavorare con tante altre donne, la volontaria si è sentita chiedere da uno dei ricercatori incaricato di seguirla personalmente durante l’esperimento, cosa stesse accadendo. Lei, dopo avergli riferito la scena, ha cominciato a ridere forte, e subito ha visto la sua risata apparire, sullo sfondo di un cielo blu scuro, come un’effusione di pietre preziose scintillanti e rilucenti in sincrono con gli scoppi di risa, con la precisione di un metronomo.

Inizialmente delusa per non aver provato quelle sensazioni di unione con l’universo o con Dio che le erano state riferite da altri, la Rex ha poi rivalutato la sua esperienza allucinatoria, considerando la risata che produce gioielli splendenti in cielo, una sorta di insegnamento metaforico. Ha poi affermato che, in momenti successivi, parlando della rappresentazione endopsichica generata dall’alcaloide con i clinici e con i professionisti che avevano un ruolo di “guida psicologica”, ha ritenuto di poter leggere in quelle visioni delle profonde verità circa la propria vita[17].

È evidente, in questo caso, che la razionalizzazione favorita e promossa dalla cultura degli sperimentatori ha avuto gioco facile in uno stato mentale mutato in positivo e privo dell’influenza  dei circuiti neurali dell’ansia, prima attivi e poi sedati per effetto della psilocibina. Ciò che conta per la Rex e per i ricercatori che hanno condotto lo studio, è che l’ideazione depressiva, la paura della morte per una recidiva del cancro della mammella di cui era stata operata e i numerosi altri sintomi ansiosi, erano scomparsi con le due dosi[18] somministrate a scopo sperimentale.

Un tale esito positivo fa pensare a quelle persone che descrivono l’esperienza come la più significativa della propria esistenza, e al convinto ottimismo di William A. Richards, psicologo del BPRU che ha partecipato agli esperimenti di trattamento di pazienti terminali con allucinogeni dagli anni Sessanta al 1977, il quale considera la psilocibina come una skeleton key[19], una sorta di grimaldello in grado di aprire una porta interiore che conduce a luoghi ai quali ordinariamente non abbiamo accesso[20].

L’esempio di Erica Rex sembra confortante, ma si deve tener conto della sua predisposizione positiva nei confronti della sostanza, della disposizione a seguire le istruzioni volte a creare le condizioni psicologiche migliori per l’esperienza e, infine, della sua preparazione scientifica. Nel corso dello stesso studio, con la stessa istruzione da parte dei ricercatori e le stesse misure precauzionali, alla comparsa delle allucinazioni alcuni volontari hanno avuto delle reazioni estremamente negative, espresse con un gamma estesa dalle emozioni di evitamento alla fuga dalla stanza. È difficile prevedere se una persona vedrà immagini e scene belle e gratificanti, accompagnate da sensazioni e sentimenti positivi, oppure si troverà alla presenza di forme mostruose, disgustose o terrificanti e si sentirà oppressa, minacciata, nauseata, terrorizzata, come se il peggiore degli incubi si fosse trasformato in realtà. In particolare, nonostante si cerchi di indurre tranquillità e serenità prima dell’assunzione, è difficile prevedere quali sentimenti emergeranno.

Se è vero che i ricercatori tengono conto dell’importanza del set e del setting, e possono fare molto per determinare l’ambiente, è pur vero che non possono selezionare con altrettanta efficacia lo stato mentale, se si eccettua l’esclusione di persone risultate non idonee secondo gli esami psicologici.

A proposito della selezione, si deve rilevare che non sono ammesse alla partecipazione le persone affette da schizofrenia o da altre forme di psicosi. Tale esclusione, che origina da una conoscenza empirica ma deve far riflettere circa l’influenza della psilocibina sulle reti neuroniche cerebrali, è motivata da conseguenze definite senza mezzi termini “catastrofiche”[21].

Fra il nostro encefalo e quello delle persone affette da questi disturbi vi è un lungo elenco di differenze, costituito in gran parte da una lista di elementi non correlati fra loro, per tale motivo non è facile definire con precisione le ragioni di uno sconvolgimento che aggrava in modo apparentemente irreversibile le condizioni degli psicotici. Ora, poiché non esiste un prototipo di alterazione molecolare, cellulare e sistemica per le psicosi, completamente distinto da quello corrispondente al funzionamento normale, ma si conoscono quadri diversi con esiti clinici simili e si sa della presenza in persone apparentemente sane di singoli parametri alterati come negli psicotici, è giustificata la preoccupazione circa il rischio di un danno da psilocibina in soggetti privi delle manifestazioni cliniche delle psicosi. A sostegno di questo timore, sebbene non vi siano studi clinici controllati per ovvi motivi etici, depongono le innumerevoli anamnesi psichiatriche che hanno registrato esordi psicotici conseguenti all’assunzione di sostanze psicodislettiche, e una ricca aneddotica raccolta in tutto il mondo su persone “impazzite” a seguito dell’uso di allucinogeni.

La prudenza, perciò, suggerirebbe di attendere quei progressi nelle conoscenze neuroscientifiche che ci consentirebbero di comprendere le ragioni di danni così gravi sul cervello di pazienti psichiatrici, chiarendo la sede e il meccanismo dell’azione in rapporto alla fisiologia di reti e circuiti in condizioni normali e patologiche.

Siamo consapevoli che molti, fra i medici e i ricercatori, considereranno eccessiva tale prudenza, tuttavia riteniamo di dover richiamare l’attenzione su questo punto, anche in ragione del fatto che, se gli effetti benefici di singole o poche dosi durano mesi o anni, vuol dire che si producono modificazioni durature[22] delle quali ignoriamo sia l’esatta natura biologica, sia le possibili conseguenze a lungo termine, perché la psilocibina è stata sperimentata quasi esclusivamente nel trattamento dei disturbi psichici di pazienti affetti da cancro in uno stadio terminale.

Passiamo ora a considerare un altro aspetto dell’incipiente sviluppo di una farmacoterapia basata sull’impiego dell’alcaloide usato nei cerimoniali aztechi.

La possibilità di trattare con solo una o due dosi di psilocibina, o di un altro farmaco simile, degli stati come i disturbi depressivi e ansiosi che accompagnano le malattie terminali e gli stati legati all’abuso di sostanze psicotrope, inclusi alcool e nicotina, ha indotto la creazione di una categoria diagnostica, lo “stato di deficit spirituale”, che include due condizioni tanto diverse, accomunandole senza argomentazioni scientifiche. Stephen Ross, primo ricercatore del Psilocybin Cancer Anxiety Study della New York University, si è così espresso al riguardo: “Le questioni relative alla dipendenza da alcool e la malattia terminale sono la stessa cosa. Queste sono persone in uno stato di deficit spirituale acuto”[23].

La definizione della nuova categoria diagnostica è la seguente: “Grave distress e sofferenza emozionale associata con eventi che minacciano l’integrità della persona”[24].

L’artificiosa creazione di questa nuova casella tassonomica, al solo scopo di farvi corrispondere un nuovo farmaco seguendo una criticata deriva del DSM, ha scelto l’evocativo impiego di un termine che fa riferimento allo spirito, come nei resoconti antropologici delle cerimonie azteche.

Scontata la buona fede della maggior parte dei ricercatori, convinti dell’utilità e dell’efficacia della psilocibina, non si può nascondere il disagio per un’operazione condotta in deroga alla ratio della pratica nosografica basata sulla conoscenza scientifica: si introduce una nuova sindrome, ad esempio, se si scopre una nuova patologia, se si accorpano più quadri clinici e si cambia loro nome perché si è accertato che sono determinati dalla stessa causa, e così via. In ogni caso, se non si tratta di una aggiunta, una nuova categoria comporterà una modifica delle precedenti; non avrebbe senso in patologia e in clinica lasciare intatte le categorie diagnostiche della nosografia corrente, poi prendere alcuni sintomi da vari quadri clinici, metterli insieme e dire: assemblati in questo modo costituiscono una nuova diagnosi.

L’espressione stato di deficit spirituale, non è solo poco scientifica, ma anche culturalmente inadeguata. Due secoli di psicologia e psichiatria scientifica hanno cercato di definire un “oggetto psichico” descrivibile in termini rigorosi e prossimi a quelli del paradigma medico dell’anatomia, della fisiologia e della patologia, allo scopo di rendere la conoscenza della mente e l’approccio alle sue alterazioni, razionale, affidabile e riproducibile. Accanto alla consapevole imperfezione di questa impresa nel suo complesso, ed alla provvisorietà di molte nozioni operative impiegate nel campo delle neuroscienze psicologiche e psicopatologiche, vi sono concetti che descrivono precise entità fisiologiche e patologiche, cui corrispondono definite basi neurali. Tale sapere, fondato in ultima analisi sul metodo scientifico, ha continue conferme sperimentali e cliniche, e costituisce, insieme con i nuovi sviluppi nelle procedure e nelle tecnologie di indagine, la ragione degli straordinari progressi compiuti nella conoscenza dei rapporti fra mente e cervello, cui sarebbe davvero difficile rinunciare per generiche tesi olistiche.

Spirituale è ciò che attiene allo spirito, all’anima, ossia un aggettivo che si riferisce ad una categoria concettuale più alta, ma non scientifica, di descrizione dell’essenza dell’uomo. Spirito, reso in greco dal termine pneuma, riferito al soffio vitale, in origine voleva dire soffio, respiro, e si riferiva alla metonimia della respirazione come segno della vita presente in un corpo, ma la sua definizione concettuale, poi acquisita in tutte le lingue occidentali, deriva dal valore semantico impresso al termine latino dal cristianesimo. Nella dottrina medievale, resa culturalmente nell’opera di Dante, si distinsero lo spirito vitale, lo spirito animale[25] e lo spirito naturale, variamente collocati nel corpo, cui si aggiungevano gli spiriti sensitivi. Dal Settecento in poi, si intese per spirito il principio vitale in genere, l’anima, con significati diversi nelle varie concezioni filosofiche; gli idealisti lo facevano coincidere con il pensiero in quanto creatore della realtà.

Nella valutazione dei volontari che prendono parte alla sperimentazione della psilocibina si sta impiegando, accanto agli strumenti di valutazione ordinari, un questionario denominato Assessment of Spirituality and Religious Sentiments.

La conoscenza e la comprensione della dimensione spirituale di una persona ha certamente un valore notevole, ma costituisce un livello di sintesi psichica troppo elevato e categorialmente diverso da quello della fenomenica molecolare, cellulare e sistemica sulla quale si basa il giudizio scientifico dell’azione e degli effetti delle molecole psicotrope. La maggior parte delle persone vive una dimensione spirituale, che ciò corrisponda o meno ad una pratica religiosa, e la maggior parte dei disturbi psichici gravi interferisce con vari aspetti della vita dello spirito, ma questo non è sufficiente per introdurre una nuova categoria diagnostica come lo stato di deficit spirituale. Soprattutto se a questa nuova definizione corrisponde una sintomatologia arcinota e presente nello stato di scompenso caratteristico di altri disturbi psichiatrici, da quelli depressivi a quelli da stress traumatico.

I dubbi della comunità scientifica sono riflessi nelle fonti di finanziamento degli studi sulla psilocibina che, per ora, sono quasi esclusivamente costituite da privati e, in particolare, dalla Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies in California, dall’Heffter Research Institute nello stato del Nuovo Messico e dalla Beckley Foundation in Inghilterra.

Attualmente sono in cantiere vari progetti e si ipotizzano nuovi esperimenti, come la somministrazione a detenuti psicopatici, propugnata da William Richards, il quale spera di indurre con l’alcaloide quelle qualità affettive ed empatiche che difettano in queste persone, verosimilmente per ipoevoluzione del sistema paralimbico e di altre aree cerebrali[26]. In un solco di maggiore fondatezza sembra invece nascere lo studio diretto da David Nutt dell’Unità di Neuropsicofarmacologia della Divisione di Scienze del Cervello dell’Imperial College (Regno Unito) che sta reclutando pazienti affetti da depressione intrattabile, ossia resistente a tutti i trattamenti convenzionali.

Lasciando le conclusioni sia pur provvisorie di questa discussione a ciascun lettore, ci limitiamo ad esprimere la convinzione della necessità di disporre di molti più dati sui meccanismi molecolari dell’azione della psilocibina e sui modi in cui questa molecola altera il funzionamento delle reti neuroniche cerebrali, prima di proporne un uso clinico ordinario in indicazioni che riguardano milioni di persone in tutto il mondo.

 

Gli autori della nota invitano alla lettura degli scritti di argomento psicofarmacologico disponibili sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi & Giuseppe Perrella

BM&L-14 settembre 2013

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Le tre “droghe rituali” usate dagli Aztechi erano il peyotl (o mescal), i funghi contenenti psilocibina e la ololiuqui (semi della Ipomoea tricolor e della Rivea corymbosa).

[2] Diego Duran (Siviglia, 1537-1588), frate domenicano, storico e storiografo, fu autore di uno dei primi libri occidentali sulla storia e la cultura degli Aztechi (Codice Duran); Jacinto de la Serna, dottore in teologia e rettore dell’Università del Messico nel XVI secolo, scrisse un’opera sulle tradizioni azteche (Tratado de las supersticiones, idolatrias, hechicerias, ritos y otras costumbres gentilicas de las razas aborigenes de Mexico) e propugnò un sincretismo religioso; Francisco Hernandez è ritenuto il fondatore del Nicaragua. Per i loro riferimenti ai funghi contenenti psilocibina, cfr. Adriano Marino, Psiconeurofarmacologia e Farmacologia Psicosomatica, p. 81 e p.83, Vallardi, Milano 1974.

[3] L’Inquisizione spagnola fu istituita nel 1478 da Sisto IV per indagare su “Ebrei, marrani e moriscos”, e fu soppressa definitivamente nel 1834. È talvolta erroneamente confusa con l’Inquisizione romana, un tribunale con giurisdizione su tutto il mondo cristiano, istituito nel 1542 da Paolo III, che gli conferì competenza sulla fede, i costumi e i matrimoni misti; dal 1908 si chiamò Congregazione del Santo Uffizio.

[4] Julius Herman Schultes botanico austriaco (Vienna, 1804 - Monaco di Baviera, 1840) con suo padre, Josef August, ha classificato numerose piante ed è stato autore del VII volume del celebre Systema Vegetabilium nell’edizione Roemer & Schultes.

[5] Cfr. Erica Rex, Calming a Turbulent Mind, p.61, Scientific American MIND 24 (2): 58-66, May/June 2013.

[6] Cfr. Adriano Marino, Psiconeurofarmacologia e Farmacologia Psicosomatica, p. 84, Vallardi, Milano 1974.

[7] Albert Hoffman scoprì le proprietà allucinogene della LSD (dietilammide dell’ac. lisergico): dopo un’ingestione accidentale, decise di assumerne 250 gamma (5 volte la dose media secondo la stima attuale) per studiare su se stesso gli effetti. Tutta la sintomatologia del grave stato allucinatorio e di intensa discrasia neurovegetativa descritta da Hoffmann, ha costituito il punto di partenza per la ricerca, ancora in corso, sulle azioni fisiologiche della molecola.

[8] Un alcaloide della Claviceps purpurea, un micete parassita della segale.

[9] Come l’armina, la bufotenina, la LSD, oltre alla stessa 5-HT.

[10] Robin L. Carhart-Harris et al., Neural Correlates of the Psychedelic State as Determined by fMRI Studies with Psilocybin. Proceedings of the National Academy of Sciences USA 109 (6): 2138-2143, 2012.

[11] Questo aspetto andrebbe indagato con altre metodiche che non è possibile impiegare nella nostra specie, pertanto si cercherà con la sperimentazione animale di trovare correlati equivalenti, anche se verranno a mancare sia i processi psichici tipici dell’uomo, sia i ruoli di mPFC e PCC del cervello umano.

[12] Come si rileverà più avanti, la maggior parte dei volontari cui è stata somministrata sperimentalmente la psilocibina era affetta da malattie oncologiche in fase terminale ed è pertanto deceduta non molto tempo dopo.

[13] L’induzione nel cervello di un assetto funzionale diverso potrebbe essere all’origine degli effetti benefici, e si può paragonare a quanto è possibile ottenere per evocazione, senza il rischio delle azioni collaterali del farmaco. La durata dell’effetto non è nota e la possibilità di impiego in tutti i casi di disturbo ossessivo-compulsivo grave, senza incorrere nei gravi danni causati agli psicotici, deve essere ancora valutata.

[14] Psicodislettici sono detti quei composti psicotropi che già ad una prima assunzione sono in grado di produrre alterazioni delle funzioni psichiche simili a quelle di uno stato allucinatorio e delirante, accostabile al quadro clinico delle psicosi acute. Per tale ragione, in farmacologia sono stati classificati come psicosomimetici. Le denominazioni proposte nel tempo sono numerose; ne ricordiamo alcune: psichedelici, ansiogeni, mistico-mimetici, psico-onirici, depersonalizzanti, fantastici, schizofrenizzanti, schizogeni, psicozimici.

[15] Erica Rex, op. cit., p.62 (TdRR: “the drug’s value depends entirely on the patient’s feelings and perceptions during the session and the way he or she processes the memories afterward”).

[16] Se queste cautele sono necessarie, una volta ottenuta l’approvazione per l’uso clinico, la somministrazione dovrebbe avvenire in ambiente ospedaliero, previa verifica di idoneità, sotto un costante controllo psicologico e psichiatrico.

[17] Cfr. Erica Rex, op. cit., p.66.

[18] I volontari si sono recati due volte alla Baltimore Clinic, ricevendo prima una dose bassa e poi la dose alta efficace.

[19] L’espressione, nell’uso comune, indica una chiave alla quale sia stata asportata una grande parte della fernetta per consentirle di aprire varie serrature di bassa qualità, come fosse una master key.

[20] Cfr. Erica Rex, op. cit., p.62.

 

[21] Erica Rex, op. cit., p.64.

[22] È verosimile che almeno alcuni di questi cambiamenti consistano in modificazioni dell’espressione genica (cfr. al paragrafo 3 l’azione della LSD sui recettori 5-HT2A).

[23] Cit. in Erica Rex, op. cit, p.62. Si lascia al lettore ogni commento.

[24] Cit. in Erica Rex, op. cit, ibidem.

[25] Dal quale presero origine i concetti che nel Seicento diedero luogo agli “animal spirits” degli empiristi inglesi.

[26] Si veda nelle “Note e Notizie” lo scritto “Basi cerebrali della psicopatia, un disturbo ignorato dal DSM” a cura della dottoressa Giovanna Rezzoni, pubblicato settimanalmente in sette parti dal 30 ottobre 2010 all’11 dicembre dello stesso anno.