Batteri intestinali agenti sul cervello

 

 

GIOVANNI ROSSI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 18 gennaio 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO/DISCUSSIONE]

 

1. Salute mentale e integrità dell’intestino. Riflettere sui rapporti fra cervello ed altri organi ed apparati dell’organismo, ci ricorda che noi siamo un “sistema di sistemi” che è, a sua volta, immerso in un ambiente. Dopo queste premesse, se le considerazioni non vertono sulle interazioni con il mondo fisico-chimico e i costituenti della nicchia ecologica, molto probabilmente si indirizzeranno verso oggetti di studio tipici delle relazioni interpersonali e sociali. Quasi mai si parla della dimensione microbiologica del nostro ambiente esterno ed interno, ignorando il fatto che siamo immersi in un mondo di microrganismi, che includono i circa 100.000 miliardi di batteri che ospitiamo nel nostro intestino.

Proprio da questi batteri intestinali è venuto un collegamento fra apparato digerente e funzioni psichiche, a lungo e invano cercato nell’adozione da parte del sistema nervoso centrale e di popolazioni cellulari dell’apparato digerente di molecole di segnalazione comuni, quali i neuropeptidi. Ad esempio, negli anni Settanta si diede importanza al suggestivo riscontro nei neuroni del peptide vasoattivo intestinale (VIP), scoperto da Said e Mutt, del quale oggi si sa che, oltre ad essere un modulatore neuronico ed endocrino, è un agente anti-infiammatorio endogeno, rilasciato dall’innervazione e da cellule immunitarie attivate, che svolge il suo ruolo mediante il legame a specifici recettori di microglia, macrofagi, cellule dendritiche e linfociti T.

Il tratto digerente e il cervello sono dunque strettamente associati, non solo a motivo dei noti effetti dell’alimentazione sulle funzioni del sistema nervoso centrale, ma precisamente per ragioni che si possono far risalire alla flora batterica del canale alimentare.

In condizioni fisiologiche, il tratto digerente è separato dal compartimento ematico da una parete selettiva e virtualmente impermeabile di cellule, che non consente il passaggio di batteri e sostanze tossiche dal lume intestinale al sangue. Malattie, condizioni fisiopatologiche e trattamenti terapeutici, quali radioterapie o un eccessivo e talvolta improprio uso di antibiotici e antidolorifici, come si vede dall’elenco sotto riportato, possono compromettere l’integrità di questa barriera cellulare, determinando la condizione di un intestino con “falle” (leaky gut) che consentono la dispersione, la sfuggita nel torrente circolatorio, di batteri e molecole provenienti dalla superficie interna dell’intestino.

 

 

CONDIZIONI O PATOLOGIE PREDISPONENTI

 O CAUSANTI “LEAKY GUT”

Abuso di alcool

Malattie autoimmuni

Infezioni (ad esempio da virus HIV)

Malattie infiammatorie

Malattia infiammatoria intestinale

Ipersensibilità al glutine

Gravi allergie alimentari

Organismo stremato

Stress psicologico

 

CAUSE IATROGENE

Terapia Radiante

Terapie antibiotiche protratte

Terapie antidolorifiche protratte

 

 

Un interessante studio, pubblicato su Acta Psychiatrica Scandinavica, è stato condotto allo scopo di verificare l’esistenza di un reale rapporto fra “leaky gut” e disturbi psichici, da un gruppo di cui fa parte Michael Maes, uno psichiatra che svolge attività di ricerca in Australia e Tailandia. Forse il rilievo più significativo riportato è che circa il 35% dei partecipanti affetti da depressione presentava segni ematochimici del passaggio di batteri intestinali nel compartimento ematico. La proporzione è tale da consentire di escludere la coincidenza casuale, tuttavia non è facile concepire ipotesi sui processi patogenetici da indagare per scoprire i meccanismi molecolari direttamente responsabili degli effetti psichici. In generale, i batteri che dall’intestino giungono nel sangue, possono attivare risposte autoimmuni e infiammatorie, e da tempo tali reazioni sono state associate a disturbi depressivi, abbassamento del tono dell’umore e sensazioni psico-fisiche di stanchezza, fino alla spossatezza. Nel campo della ricerca psicopatologica e psicosomatica non sono pochi coloro che considerano la depressione una “malattia infiammatoria”, ma rimane da stabilire se realmente la patogenesi dei disturbi depressivi implichi in ogni caso processi propri dell’infiammazione. Michael Maes è abbastanza prudente al riguardo, perché si limita ad ipotizzare una partecipazione dell’infiammazione originata da batteri intestinali al mantenimento di uno stato infiammatorio diffuso che nella depressione è più elevato che di norma[1]. In altri termini, un ruolo concausale o in grado di peggiorare un quadro fisiopatologico sviluppatosi per cause diverse e indipendenti.

Le evidenze, emerse da vari studi, di effetti sull’attività cognitiva cerebrale, ma anche sul tono dell’umore, su aspetti qualitativi dell’affettività e dei pensieri, da parte di processi riconducibili a batteri intestinali, sono numerose. Anche se nella maggior parte dei casi si tratta di studi preliminari che non forniscono dati decisivi, e in generale non sono stati ancora identificati i meccanismi molecolari, vale la pena documentare in una estrema sintesi i principali risultati, riferendoli al tipo microbico.

 

1.1. Lactobacillus helveticus e Bifidobacterium longum. La somministrazione di un misto probiotico di questi due batteri a volontari sani, ha prodotto uno dei risultati più interessanti: la riduzione di ansia e depressione. Non si ha ancora una precisa traccia per cercare di identificare le possibili virtù terapeutiche di queste due specie batteriche, ma sono state proposte alcune ipotesi di lavoro.

 

1.2. Lactobacilli. Sono state studiate le feci di studenti in apparente buona salute, senza disturbi neurologici, psichiatrici o gastroenterici, durante un esame che comportava un alto livello di stress. La quota fecale di lactobacilli, comparata con quella rilevata in periodi di bassa tensione durante lo stesso semestre, era molto più bassa. Questo dato suggerisce un legame fra stress e composizione microbica della flora batterica intestinale, ma il preciso rapporto rimane da determinare.

 

1.3. Batteri Probiotici (In particolare: B. animalis subsp. lactis, Streptococcus thermophilus. L. delbruekii subsp. Bulgaricus, L. lactis subsp. lactis). Donne in apparente buona salute che consumano yogurt contenente questi microrganismi, presentavano al neuroimaging un’attività decisamente minore in regioni del cervello che elaborano le emozioni e le sensazioni fisiche. Non è stato ancora possibile stabilire se e in quale misura questi effetti possano considerarsi benefici. Lo shift osservato nell’attività dell’encefalo è netto, notevole e, perciò, molto interessante; tuttavia, i possibili meccanismi che lo hanno determinato sono ancora del tutto ignoti.

 

1.4. Helicobacter pylori. Si è ipotizzato che uno dei batteri con potenzialità patogena che passi nel sangue attraverso le soluzioni di continuità della parete cellulare intestinale, sia l’Helicobacter pylori, ritenuto fra le cause principali di ulcera peptica. Qualche cenno alla storia recente della ricerca su questo microrganismo sarà utile per comprendere la portata delle nuove acquisizioni.

I medici australiani Barry Marshall e Robin Warren per primi negli anni Ottanta lo indicarono come agente causale dell’ulcera peptica, quando l’eziologia microbica di questa patologia era considerata un’eresia. Helicobacter pylori è uno dei pochi batteri in grado di moltiplicarsi nell’ambiente acido dello stomaco. L’introduzione in clinica del trattamento antibiotico dell’ulcera peptica in breve ridusse del 50% i casi di erosione della mucosa indotta da microrganismi. Martin Blaser, che ha cominciato a studiare Helicobacter pylori come patogeno oltre 25 anni fa, dopo aver compreso che si trattava di un commensale, con i suoi colleghi della New York University, nel 1998 pubblicò uno studio in cui si mostrava che nella maggior parte delle persone il batterio svolge un ruolo di notevole utilità per l’organismo, contribuendo alla regolazione dei livelli di acidità gastrica. Infatti, se il pH gastrico diventa troppo basso e perciò inospitale per Helicobacter pylori, i suoi ceppi che contengono il gene cagA producono proteine che inducono le cellule oxintiche dello stomaco, secernenti acido cloridrico, a ridurre il flusso. Nelle persone suscettibili, tuttavia, è proprio cagA a rendersi responsabile dello sviluppo di ulcere.

Una decina di anni dopo, Blaser e colleghi accertarono e dimostrarono che Helicobacter pylori, oltre a regolare l’acidità gastrica, svolge un ruolo nella regolazione dell’appetito alimentare producendo la grelina, che segnala al cervello il bisogno di cibo inducendo fame, e la leptina che, fra gli altri compiti, ha quello di segnalare la sazietà[2]. Nel 2011 Blaser ha pubblicato uno studio che confermava il ruolo del batterio nella regolazione dei livelli di grelina, in particolare determinando con la sua riduzione dopo un pasto il cessare dell’appetito. Si è stimato che due o tre generazioni fa l’80% degli Americani ospitava Helicobacter pylori, mentre ora solo il 6% dei bambini risulta positivo al batterio. Si comprende che nel 2012 sia stata avanzata l’ipotesi che una parte non irrilevante dell’enorme diffusione di casi di obesità infantile in America e in Europa sia dovuta all’eradicazione di Helicobacter pylori mediante antibiotici.

May A. Beydoun e colleghi del National Institute on Aging, basandosi su evidenze che associavano ridotte prestazioni cognitive alla sieropositività all’Helicobacter pylori, hanno condotto uno studio per verificare in due ampi campioni della popolazione statunitense, dai 20 ai 59 anni e dai 60 ai 90, la possibile influenza del batterio, anche in rapporto al sesso e a caratteristiche antropologiche[3]. La stima di sieropositività si è basata su due misure (IgG e IgG CagA) mentre le prestazioni cognitive sono state valutate mediante batterie di test neuropsicologici specifiche per l’età. Veramente rilevante la riduzione di prestazione cognitiva nei sieropositivi del gruppo 60-90, rispetto ai coetanei sieronegativi, nelle prestazioni di memoria verbale (ricordo di una storia e correzione di elementi erronei). In tutti e tre i gruppi antropologici principali (cosiddette razze) in cui è stato ripartito il campione, in entrambe le categorie di età e in tutte le aree della cognizione esplorate dalle prove impiegate, si sono registrati risultati notevolmente peggiori nei sieropositivi all’Helicobacter pylori. Tali risultati sembrano fugare ogni dubbio sulla reale capacità del batterio di incidere negativamente, tanto che gli autori del lavoro concludono lapidariamente che la sieropositività si associa a diminuite capacità cognitive degli adulti negli USA, ed auspicano ricerche longitudinali per porre in relazione questi risultati specificamente con il declino cognitivo, con la demenza e la malattia di Alzheimer.

Quest’ultima questione è particolarmente significativa, perché alcune evidenze di laboratorio indicano che le cellule di questo batterio che finiscono nel sangue per sfuggita da un intestino non perfettamente continente, o leaky gut, sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica e penetrare nello spazio parenchimale dell’encefalo, dove possono aggregarsi con i peptidi β-amiloidi che formano le placche tipiche della malattia di Alzheimer. In particolare, sembra che l’aggregazione batterica inneschi o incentivi processi di accumulo di materiale β-amiloide, verosimilmente partecipando ad uno dei processi principali che portano alla neurodegenerazione alzheimeriana.

Se, come abbiamo ricordato, in età infantile solo il 6% è portatore del batterio, nelle età successive la percentuale sale notevolmente: i National Institutes of Health (NIH) hanno recentemente fornito la stima del 20% per le persone al di sotto dei 40 anni e di circa il 50% per coloro che abbiano superato i 60 anni. È ovvio che, pensando all’accresciuto rischio di obesità infantile senza il batterio, si vorrebbe aumentare il numero dei portatori ma, se si dimostrerà realmente un contributo di Helicobacter pylori alla patogenesi dell’Alzheimer in un numero significativo di casi, si potrebbe voler ulteriormente abbassare la quota dei portatori a scopo preventivo. Per tali ragioni, la ricerca in questo campo dovrebbe essere intensa ed avere il sostegno delle principali fonti di finanziamento internazionale, almeno fino a quando si saranno date risposte certe agli interrogativi principali.

 

2. Considerazioni conclusive. Le cellule batteriche presenti nel e sul nostro corpo superano di 10 volte il numero delle cellule costituenti il nostro organismo, ma solo di recente la ricerca ha cominciato a fornire risposte sui molteplici ruoli che questi commensali svolgono nell’economia dei nostri processi fisiologici. Lo stretto rapporto fra i batteri e gli organismi complessi, fino al nostro, è da sempre all’attenzione dei ricercatori, e già da molti decenni una teoria citoevolutiva aveva indicato i mitocondri, organuli tipici delle cellule eucariotiche, come discendenti di cellule microbiche che si sarebbero comportate da parassiti endocellulari.

Uno dei campi più affascinanti di questa ricerca riguarda la cooperazione genetica fra il nostro genoma costituito da 20-25.000 geni e il microbioma intestinale, ossia il materiale genetico di oltre 1000 specie, costituito da circa 3.3 milioni di geni: quasi 150 volte il numero dei nostri. I progressi compiuti nell’elaborazione computerizzata e nel sequenziamento genico stanno permettendo la realizzazione di un registro dettagliato dei geni provenienti dall’insieme di tutti questi microrganismi. La distruzione inavvertita di una parte di questo patrimonio microbico sembra essere all’origine dell’aumento di disturbi autoimmunitari e obesità. Se abbiamo presente questo quadro di base, ci rendiamo conto di quanto sia delicata la questione di un trattamento antibiotico finalizzato ad evitare gli effetti negativi sul cervello e sulla mente del passaggio nel sangue di batteri potenzialmente psicotossici.

 

L’autore della nota ringrazia il presidente Perrella per alcune preziose integrazioni del testo e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che compaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanni Rossi

BM&L-18 gennaio 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] L’opinione di Maes è riportata da Tori Rodriguez in Gut Bacteria May Exacerbate Depression (Sci Am Mind 24 (5): 8, November/December 2013)

[2] Per indicazioni sintetiche sulle azioni di grelina e leptina si veda in “Note e Notizie 02-02-13 come la grelina si lega ai neuroni ipotalamici dell’appetito”. Sulla leptina si veda: “Note e Notizie 26-11-11 La leptina regola il valore di ricompensa dei nutrienti”. Si veda anche: “Note e Notizie 11-05-13 Un meccanismo per iperfagia e obesità da alterazione ormonale”. Grelina e leptina, nei mammiferi, hanno ruoli complessi e bene indagati dei quali si parla in numerose recensioni di studi che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA” del sito).

[3] Beydoun M. A., et al. Helicobacter pylori Seropositivity and Cognitive Performance Among US Adults: Evidence From a Large National Survey. Psychosomatic Medicine 75 (5): 486-496, 2013. Lo studio si è basato sulla National Health and Nutrition Examination Survey III, Phase 1; le caratteristiche antropogeografiche di provenienza, che in parte coincidono con quelle etniche, negli USA per consuetudine giuridico-politica (lessico della Costituzione) sono impropriamente definite razze.