Le basi cerebrali delle abitudini

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 13 settembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento rientra negli oggetti di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: AGGIORNAMENTO]

 

 

(Prima Parte)

 

 

…tanta era la forza della sua abitudine di prendere alla lettera le espressioni figurate delle emozioni che…

il dottor Cotard aveva dovuto rimettere a posto la mascella slogatasi per il gran ridere.

[Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto]

 

La forza maggiore che ho trovato nella mente,

e alla quale ho spesso ancorato i nuovi apprendimenti, è l’abitudine.

[Giuseppe Perrella, Riflessioni sul cervello]

 

Si attribuiva a Marilyn Monroe la battuta: “Non mi riesce proprio di essere fedele, forse perché è l’unica cosa che non faccio per abitudine!”, ma ne circolavano molte di frasi ad effetto nei laboratori in cui si studiavano i processi neurali elementari di abitudine indotta in organismi semplici. In realtà, i comportamenti abituali, che costituiscono una parte importante della nostra vita, non hanno molto in comune con i processi elementari di adattamento sensoriale e motorio al ripetersi di un’esperienza, ma rappresentano veri propri programmi di azioni finalizzate che includono spesso sequenze proceduralizzate ed elementi a struttura paradigmatica in grado di provvedere ad automatismi di adattamento alla circostanza, preservando il senso del comportamento.

Se pensiamo ad uno stile di vita fatto di consuetudini e comportamenti ripetitivi, che sostituiscono e soffocano iniziativa, progettualità e creatività, comprendiamo l’accezione negativa, così bene riassunta da Honoré de Balzac per il principale vincolo che unisce due persone: “Il matrimonio deve continuamente combattere contro un mostro che tutto divora: l’abitudine”.

Se invece pensiamo ad abitudini come il lavarsi quotidiano o il riporre indumenti ed oggetti dopo l’uso, non possiamo che rilevarne il valore positivo, anche nel piano generale di efficienza ed economia del vissuto, per l’automatizzazione di compiti doverosi, con compattamento temporale e risparmio del tempo a favore di attività più importanti per la vita psichica individuale, la vita affettiva di relazione, il ruolo lavorativo e sociale.

L’acquisizione di buone abitudini è una chiave importante in ogni processo educativo ed ha costituito la base dell’addestramento sportivo e militare in ogni epoca; al contrario, lo sviluppo di cattive abitudini è da sempre un grosso problema pedagogico e, per molti aspetti, un problema terapeutico.

La comprensione dei meccanismi neurali che convertono un comportamento nuovo o sporadico in un’abitudine efficiente o in una sciagurata condotta a danno dell’organismo, si ritiene che potrà tanto illuminare la conoscenza delle basi delle buone abitudini, quanto favorire lo sviluppo di migliori strumenti terapeutici per eradicare le compulsioni patologiche. Dopo decenni in cui i risultati della ricerca al riguardo sono stati incerti e frammentari, se si eccettuano i meccanismi cellulari e molecolari delle tossicodipendenze, oggi si dispone di una ragguardevole mole di dati e di alcuni concetti emersi dalla loro interpretazione, che possono consentire un cambiamento di prospettiva.

L’affinamento delle tecniche e i progressi nelle metodiche di studio stanno consentendo di individuare i meccanismi neurali alla base dei comportamenti costanti e ricorrenti, e in particolare di definire i cosiddetti circuiti dell’abitudine, cioè le aree e le connessioni responsabili della formazione e della conservazione delle nostre esecuzioni stereotipe.

Le conoscenze emergenti da questa ricerca ci aiutano a comprendere come il cervello costruisce buone abitudini e perché per vincere sia comportamenti abituali gratificanti ma dannosi per la salute, sia apparentemente di nessuna importanza per noi, siamo costretti a combattere, e perché spesso queste battaglie interne non hanno esiti positivi.

I risultati di questi studi emergono come un’obiezione irriducibile al determinismo biologico del comportamento umano, supportando la tesi delle straordinarie possibilità dell’auto-educazione e dell’auto-modellamento propugnata dalla nostra società scientifica[1]. Infatti, numerose prove dimostrano che i nostri processi coscienti possono in qualsiasi momento intervenire su condotte abituali e che, se vogliamo, possiamo sviluppare e consolidare dentro di noi, con la forza dell’abitudine, apprendimenti rispondenti alle nostre conoscenze igieniche e convinzioni morali più difficili da rispettare. Non siamo perciò meravigliati, come Ann Graybiel e Kyle Smith, i quali affermano che le promesse di questo campo di studi originano da una serie di sorprese: “Che anche quando sembra che stiamo agendo automaticamente, parte del nostro cervello sta accuratamente monitorando il nostro comportamento”[2].

Anche se non ci meravigliano le prove dell’autonomia e del potere della nostra volontà cosciente, ci colpiscono i risultati degli esperimenti sui roditori - dei quali si dirà più avanti - che dimostrano straordinarie potenzialità della corteccia cerebrale nell’interrompere l’attività di circuiti sottocorticali dell’abitudine.

 

Cosa si intende per abitudine. Come per altri concetti nati dalla semplice osservazione dell’agire umano, anche per l’abitudine non è facile dare una definizione neuroscientifica che individui un equivalente animale e corrisponda ad un insieme discreto di processi neurofunzionali. L’opinione prevalente fra i ricercatori individua le abitudini in una gamma continua che va dagli automatismi stereotipati e specie-specifici, ai comportamenti ripetuti su base compulsiva.

Le abitudini sono per definizione dei comportamenti appresi che si ritiene si formino, in chiave evolutiva, come conseguenza del gioco di vantaggi e svantaggi prodotti dalle circostanze su spinte conseguenti all’ambiente biologico interno e all’esplorazione dell’ambiente fisico e sociale nel quale si è immersi. Un comportamento abituale può essere descritto come una sequenza breve o lunga di atti includenti, al loro interno, opzioni predefinite che eliminano la necessità della scelta decisionale. La nostra scuola neuroscientifica ha posto l’accento sul “valore economico”, in termini di energia e di efficienza, dei comportamenti abituali rispetto a quelli spontaneamente elaborati in funzione delle contingenze.

Un aspetto funzionale caratteristico è che maggiore è l’esercizio di abitudine, minore è il controllo cosciente. Lo studio del comportamento basato su memorie procedurali, come quelle necessarie per scrivere mediante una tastiera, guidare un’auto, suonare uno strumento musicale, andare in bicicletta, ha dimostrato che l’intervento della coscienza in queste attività rappresenta l’eccezione. Quanto le abitudini siano vicine o addirittura assimilabili agli apprendimenti procedurali, è difficile dirlo, tuttavia è ragionevole ipotizzare un rapporto simile a quello delle procedure con i processi coscienti.

Un basso grado di controllo consapevole nelle azioni consuete sembra spiegare la facilità con la quale una preoccupazione o un’interferenza cancellino la traccia di atti quali spegnere la luce, il computer, chiudere il gas, l’uscio di casa o l’auto, inserire l’allarme di un antifurto, e così via. Ad alcuni capita spesso di interrogarsi sull’aver realmente compiuto tali azioni e, nel dubbio, tornare indietro a verificare. Una ragione della vulnerabilità di queste memorie sembra essere costituita dalla debole traccia lasciata nei processi coscienti della working memory dalle azioni abituali.

Una conseguenza del basso grado di controllo cosciente dell’abitudine è che tante azioni collegate a vizi o condotte non desiderabili sfuggono alla nostra vigilanza; basti pensare, in una condizione di stress o di attesa, al gesto automatico di accendere una sigaretta da parte di un fumatore o di assumere cibo da parte di persone in sovrappeso. A questo proposito è lecito chiedersi se l’addiction, ossia lo stato caratterizzato da alterazione dei sistemi dopaminergici a ricompensa della VTA tipico delle tossicodipendenze e di altre forme di dipendenza, può considerarsi una forma di abitudine. Al riguardo, torna alla mente un aforisma di Napoleone Bonaparte: “L’uso ci condanna a molte follie: la maggiore è quella di rendercene schiavi”.

 

[continua]

 

L’autore della nota invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono sul sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-13 settembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 



[1] Ricordiamo che, nel discorso di presentazione del lavoro della nostra società nel 2003, il presidente Perrella parlava di epoca in cui la cultura della coscienza, con la forza della volontà e il valore della responsabilità, sarebbe dovuta subentrare a quella dell’inconscio, sviluppata nel secolo scorso su un malinteso senso sociale delle tesi della psicoanalisi. Negli anni, la nostra scuola ha dimostrato anche l’infondatezza della tesi secondo cui un ineluttabile determinismo biologico, combinato ad apprendimenti sociali altrettanto inevitabili, precluderebbe il libero arbitrio.

[2] Graybiel A. M. & Kyle S. Smith, Good habits, bad habits, p. 24, Scientific American 310 (6): 23-27, 2014.