La pratica migliora ma non crea talenti

 

 

LORENZO L. BORGIA

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XII – 13 dicembre 2014.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: DISCUSSIONE/AGGIORNAMENTO]

 

Avverrà come di un uomo che, partendo per un viaggio,

 chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno

diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno,

a ciascuno secondo la sua capacità, e partì.

[Matteo 25: 14-15]

 

 

Dalla parabola evangelica citata in esergo deriva la definizione, diffusa in tutto il mondo, di “talenti” per indicare capacità specifiche e innate, non possedute da tutti, nei diversi campi delle attività umane. Il talento era una moneta che, nella Palestina dell’età ellenistica, aveva un valore pari a 10.000 dracme attiche; la dracma, a sua volta, era una moneta d’argento di origine greca corrispondente al valore della lira d’oro e divisibile in 6 oboli. Un talento, pertanto, era un piccolo tesoro. L’antica tradizione dei credenti, secondo cui i talenti sarebbero stati elargiti da Dio, ha un suo equivalente nella cultura di impronta non religiosa nel concetto di “dono di natura”. Si evince l’esistenza di un’antica, profonda e radicata convinzione del possesso da parte di alcuni di qualità speciali che consentono prestazioni sorprendenti: si dice infatti che “hanno un dono” o possiedono “una dote”, ossia una sorta di valore proprio indipendente dall’esperienza. Un tale modo di intendere si può facilmente riconoscere negli ambienti scientifici e tecnici dei paesi di lingua inglese, nei quali si è molto attenti nel distinguere fra “gifted”, riferito a una persona con un dono speciale, e “skilled”, riferito ad una persona provvista di conoscenze e abilità esercitate in un determinato campo[1].

Un colpo notevole a questa concezione fu inferto nel 1993 dallo psicologo K. Anders Ericson e dai suoi colleghi che dimostrarono l’efficacia della pratica nel conferire abilità a persone apparentemente prive di doti in un particolare campo. Secondo Ericson non esistono i “talenti”, perché il valore di abilità, da lui valutato in base al successo, è sempre conseguenza di ciò che lui e i suoi colleghi hanno definito deliberate practice: un trionfo della forza di volontà associata alla proceduralizzazione degli apprendimenti dovuta all’esercizio. Più precisamente, per deliberate practice, reso in italiano con “pratica deliberata”, si intende un’attività elaborata ed esercitata allo scopo di migliorare una prestazione.

Vari ricercatori hanno sposato la tesi di Ericson, che era divenuta in breve molto popolare in quegli anni grazie a Malcom Gladwell che l’aveva divulgata nel suo libro Outliers come la “regola delle 10.000 ore”[2].

L’efficacia dell’esercizio, che l’umanità ha impiegato dall’infanzia della sua storia nell’addestramento militare e sportivo, è fuori discussione, i dubbi rimangono sul valore esclusivo della pratica nel conferimento di tutte le doti di abilità che è possibile osservare nella realtà.

Inevitabilmente l’idea del “dono”, come qualità intrinseca e innata, riporta alla vexata quaestio sul peso della genetica nelle facoltà psichiche che, dall’epoca in cui il geniale cugino di Charles Darwin, Francis Galton, sostenne l’ereditarietà dell’intelligenza, è progressivamente divenuta un dibattito sul determinismo biologico. L’importanza dell’ambiente, dell’esperienza e dell’apprendimento del singolo individuo di una specie, in alcune realtà culturali si è congiunto alle tesi di un umanesimo moderno che punta molto sul potere del singolo di cambiare il proprio destino sociale e perfino biologico. Nelle società industriali e post-industriali è sicuramente un valore condiviso la “lotta” contro limiti, difetti, disabilità e malattia, che consente anche a una persona paralitica o amputata di diventare un atleta e vincere medaglie nelle specialità paraolimpiche.

Negli ultimi decenni la fiducia nel valore del training è cresciuta notevolmente, così che alcuni studiosi hanno ipotizzato che molte delle differenze nelle doti naturali rilevate nella vita di tutti i giorni, non sono altro che l’effetto di un esercizio inapparente svolto nei primi anni di vita e favorito dalla precoce maturità di alcune strutture nervose. Quanto più è precoce l’esercizio, tanto maggiori sono i suoi effetti di modellamento, in quanto agisce su sistemi più plastici e più pluripotenti di quelli delle età successive[3]. Ammesso che ciò sia giusto, è sufficiente per sostenere che il “talento” non esista?

Per sottoporre a verifica questa tesi, consapevoli della necessità di fare riferimento a grandi numeri, Brooke Macnamara e colleghi dell’Università di Princeton hanno ideato uno studio di meta-analisi dei principali lavori che hanno esaminato la relazione fra il tempo dedicato alla pratica e l’abilità acquisita, in vari campi fra le più comuni e impegnative attività umane, fra cui l’istruzione, lo sport e la musica. Lo studio, pubblicato su Psychological Science, ha impiegato i risultati di 157 ricerche condotte in precedenza e scelte fra quelle ammesse alla pubblicazione (peer reviewed) da referees di alta competenza.

L’esito, almeno in termini quantitativi, è stato sorprendente. Infatti, la durata temporale della pratica incideva, in media, sulla variazione della prestazione solo per il 12%. La durata dell’esercizio e, dunque, il numero delle volte in cui si ripeteva l’esperienza o i suoi elementi salienti, ha fatto registrare l’effetto maggiore su un gioco cognitivo basato, al massimo grado, su ragionamento e memoria di funzionamento, come gli scacchi. Secondo le elaborazioni di Macnamara e colleghi, la pratica spiegava il 26% delle differenze di prestazione nei giocatori di scacchi. Al contrario, in corsi accademici e attività professionali, come quella del programmatore informatico, l’abilità nello svolgimento di mansioni e compiti è risultata scarsamente dipendente, o del tutto indipendente, dal tempo di durata della pratica.

È rilevante che, all’interno dei 157 studi esaminati, maggiore era stato il rigore con il quale l’abilità dei volontari era stata studiata  - ad esempio ingaggiando esperti del settore specificamente incaricati di una rigorosa valutazione tecnica della prestazione - meno rilevante sulla performance è risultata la durata della pratica.

Nella loro discussione, Macnamara e colleghi affermano di non avere certezze su quali siano gli altri fattori che, al di là della pratica, concorrano a determinare le abilità di alto livello; tuttavia, ipotizzano un ruolo importante per tre elementi: 1) talento naturale; 2) intelligenza generale; 3) working memory.

E così il talento, uscito dalla porta, sembra ritornare da questa finestra. La questione, come ognuno può vedere, non è banale, e il problema del metro adottato per giudicare l’influenza dell’esercizio sulla prestazione, in questo lavoro e in generale nella maggior parte degli studi esaminati su questo argomento, richiederebbe un intero saggio tecnico e critico.

Anche se Brooke Macnamara e colleghi non dimostrano direttamente l’esistenza di differenze fra le persone in attitudini ed abilità intrinsecamente possedute e precedenti l’apprendimento mediante la pratica di procedure o tecniche, implicitamente ne rilevano l’importanza nel determinare le prestazioni. La questione è quanto mai aperta al dibattito e invitante per la ricerca.

In conclusione, riprendendo una recente considerazione critica di Nathan Collins all’idea di Ericson, secondo cui la deliberate practice determina il successo, osserviamo che, pur possedendo una capacità di prestazione perfetta, il successo non è garantito, in special modo in ambito sociale e, meno che mai, ahimè, in Italia.

 

L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la collaborazione e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Lorenzo L. Borgia

BM&L-13 dicembre 2014

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] È la distinzione che nei media americani è stata a lungo presentata con il paradigma vivente di Bill Gates e del suo maestro-collega, rimasto sempre solo “skilled” perché non “gifted” come il suo allievo.

[2] Si pensi all’addestramento dei piloti con i simulatori di volo computerizzati, che si basa sul numero di ore. Molti training moderni, nei più svariati campi, si basano sul calcolo del numero di ripetizioni di un esercizio che garantisce la perfetta esecuzione da parte del 100% delle persone che lo intraprendono.

[3] Talenti calcistici indiscussi, come Pelé e Maradona, hanno cominciato in tenerissima età, per proprio desiderio e piacere, ad esercitarsi per l’intera giornata.