Si è scoperto che la melatonina induce aggressività femminile

 

 

NICOLE CARDON

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIII – 28 novembre 2015.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Nel mondo animale, così come nella realtà umana, la performance di aggressione e il comportamento aggressivo, in generale, sono stati messi in relazione con gli ormoni androgeni. In particolare, nel corso di decenni, si sono accumulati risultati che provano un ruolo di regolazione degli steroidi sessuali, che avrebbero la facoltà di modulare l’attività di circuiti neurali geneticamente predisposti ed organizzati funzionalmente negli equilibri di base dell’organismo.

Una molecola, in particolare, è stata associata tanto nelle specie aviarie quanto nei mammiferi al comportamento aggressivo: il deidroepiandrosterone (DHEA, da de-hydro-epi-androsterone), un precursore non proveniente da testicolo od ovaio di ormoni biologicamente attivi derivati dal nucleo del ciclopentanoperidrofenantrene o sterano. In generale, l’aggressività è stata studiata quasi esclusivamente nei maschi, sia per la sua maggiore espressione in questo sesso sia per una più facile verificabilità sperimentale per FAP (fixed action patterns) più evidenti e caratterizzati. Così, anche se le femmine delle specie indagate, al pari dei maschi, usano l’aggressione[1] in circostanze in cui risorse limitate costringono alla competizione, i meccanismi fisiologici e molecolari che intervengono negli organismi di sesso femminile sono rimasti quasi inesplorati. Ora, un nuovo studio condotto da Rendon e colleghi, propone un meccanismo endocrino, mai descritto in precedenza, che regola il comportamento aggressivo femminile mediante l’azione diretta dell’ormone melatonina, prodotto dalla ghiandola pineale o epifisi, sugli androgeni sintetizzati e rilasciati dagli organi surrenali (Rendon N. M., et al. The agonistic adrenal: melatonin elicits female aggression via regulation of adrenal androgens. Proceedings of Biological Science – Nov 22, 282(1819). pii: 20152080, 2015).

La provenienza degli autori è la seguente: Department of Biology, Indiana University, Bloomington, Indiana (USA); Center for the Integrative Study of Animal Behavior, Indiana University, Bloomington, Indiana (USA); Program in Neuroscience, Indiana University, Bloomington, Indiana (USA).

Ricordiamo che la N-acetil-5-metossitriptamina (C13H16N2O2) o melatonina è una molecola ubiquitaria in natura e presente anche nei batteri, che nel nostro organismo è sintetizzata e rilasciata nel sangue dalle cellule principali della ghiandola pineale o epifisi con funzione ormonale.

Uno sguardo sintetico al passato della ricerca sulle basi neurofisiologiche dell’aggressività può aiutarci a capire le difficoltà del presente e ad apprezzare uno studio, come quello qui recensito, nell’ambito di un dimorfismo sessuale molecolare fino a qualche decennio fa impensabile.

Come è facile riscontrare leggendo le rassegne e i capitoli inclusi nella manualistica neuroscientifica, era difficile un tempo ragionare in termini di sistemi neuronici, soprattutto per limiti tecnici e di procedure e non tanto per scelta metodologica. Per questa ragione si passava dalla ricerca di correlati neuroanatomici, quali centri, aree o parti di nuclei o regioni, a quella di correlati neurochimici costituiti da molecole in grado di influenzare i sistemi di segnalazione mediatori dell’effetto. Si prendevano le mosse da un’osservazione che accomunava l’uomo alla maggior parte degli animali studiati: la presenza di un equilibrio fra la rabbia ed uno stato di quiete emozionale o tranquillità, spesso reso nei manuali tradotti in italiano con il termine placidità. Applicando il paradigma sensoriale classico, si supponeva per il mantenimento di questo equilibrio l’esistenza di un filtro, che consentisse di ignorare stimoli non in grado di superare una certa soglia. Gli stimoli adeguati per qualità ed intensità al superamento della soglia di guardia, sarebbero stati i veri evocatori della risposta aggressiva definita reazione di rabbia. Secondo tale modello, la possibilità di attivazione di una reazione dipendeva dal setting della soglia oltre che dai caratteri dello stimolo. In proposito, di passaggio, ricordiamo l’effetto di sommazione temporale di alcuni stimoli innocui che, ripetuti in un tempo breve, determinano il superamento della soglia reattiva.

Una delle prime osservazioni negli animali fu il rilievo che, dopo alcune lesioni cerebrali, anche cause assolutamente banali potevano evocare episodi di grande violenza; al contrario, altre lesioni determinavano un anomalo innalzamento della soglia, tale per cui anche gli stimoli più intensi non riuscivano a scuotere l’animale dalla sua anomala tranquillità. Reazioni di rabbia a stimoli trascurabili sono state registrate per rimozione della neocorteccia, per lesioni dei nuclei settali e del nucleo ventromediale dell’ipotalamo, già definito “centro della sazietà” perché la sua lesione causava fame incontrollata con obesità da iperalimentazione.

La distruzione bilaterale dei nuclei amigdaloidei nella scimmia produce uno stato di abnorme placidità. Qualcosa di simile è stato riportato per cani e gatti. Ratti selvatici che in cattività sviluppavano un’aggressività incontrollata, dopo l’ablazione bilaterale dell’amigdala diventavano mansueti come il comune ratto bianco impiegato in laboratorio. La stimolazione selettiva di nuclei amigdaloidei nel ratto ha prodotto risposte aggressive. La placidità indotta da lesioni amigdaloidee si tramuta in rabbia se viene distrutto bilateralmente anche il nucleo ventromediale dell’ipotalamo. Alcuni esperimenti hanno dimostrato che si può produrre rabbia anche stimolando un’area che si estende dall’ipotalamo laterale alla sostanza grigia centrale del mesencefalo; altre osservazioni sperimentali hanno mostrato che la risposta di rabbia solitamente prodotta dall’amigdala, manca dopo lesioni dallo stesso lato nell’ipotalamo laterale o nel mesencefalo rostrale. La modulazione ormonale e sociale del comportamento aggressivo è nota da lungo tempo: la castrazione lo deprime e gli androgeni lo accrescono, così come lo accresce l’introduzione di un estraneo nel territorio di appartenenza e, nel maschio, la convivenza con le femmine.

Sulla base di queste evidenze sperimentali, fin dagli anni Settanta era stata ipotizzata l’esistenza di due meccanismi fisiologici in stretto collegamento fra loro, l’uno nell’ipotalamo e l’altro nel sistema limbico (amigdala), in grado di determinare placidità e rabbia. Adottando questo modello, impiegato per interpretare anche osservazioni su quadri clinici dovuti a danni patologici o a lesioni cerebrali accidentali, come quelle da interventi chirurgici sull’ipofisi, in Giappone fu introdotto un trattamento psicochirurgico consistente nella distruzione bilaterale dell’amigdala. L’intervento, poi abbandonato per motivi etici ed ovvie controindicazioni, era praticato in casi di disturbi mentali caratterizzati da eccitazione estrema ed aggressività distruttiva, con il risultato di indurre calma, docilità e mansuetudine.

La ricerca più recente ha spostato l’attenzione sui sistemi neuronici, ottenendo risultati più selettivi ed accrescendo notevolmente il bagaglio di nozioni sperimentali connesse con l’aggressività; tuttavia, non si è giunti all’identificazione di una base neurobiologica circoscritta, univoca e conservata nell’evoluzione delle reazioni di rabbia e del comportamento aggressivo.

Dopo questi cenni sulla ricerca del passato, ritorniamo allo studio qui recensito.

L’importante ruolo di regolatori dell’aggressività degli steroidi sessuali non sempre si riesce ad evidenziare, e nelle femmine i meccanismi fisiologici sono stati raramente indagati. La prevalenza dell’aggressività nel sesso maschile è evidente in pressoché tutte le specie di mammiferi studiate, ed è interpretata in chiave evoluzionistica come effetto di un vantaggio selettivo nella competizione riproduttiva, che si può estendere alla protezione della femmina e della prole. L’evidenza dello stretto rapporto fra ormoni sessuali maschili e aggressività ha facilitato la focalizzazione della ricerca sulla modulazione endocrina di questo comportamento nei maschi.

 Rendon e colleghi hanno affrontato questi problemi in una particolare specie di criceto solitario, il Phodopus sungorus. La particolarità di questo animale è che entrambi i sessi presentano un marcato comportamento di appartenenza e di difesa territoriale non limitato a brevi periodi dell’anno, ma esteso nel corso delle stagioni. Nel Phodopus è stata descritta un’accresciuta tendenza aggressiva concomitante ad una riduzione dei livelli sierici di ormoni steroidi sessuali nei giorni brevi, cioè quando la durata del periodo di illuminazione da luce solare nelle 24 ore è minore, come nelle brevi giornate invernali. Le femmine, durante le giornate con un periodo di illuminazione breve e non durante le giornate lunghe, presentavano una aumentata responsività del DEHA surrenalico, concomitante con coerenti modificazioni istofunzionali della ghiandola. Nei “giorni brevi” risultavano aumentati sia i livelli sierici di DEHA sia quelli totali dell’ormone nel tessuto ghiandolare. Infine, la melatonina accresceva i livelli di DEHA e di aggressione e stimolava il rilascio di DEHA da cellule surrenaliche in coltura.

Nell’insieme, questi risultati indicano che il DEHA è una molecola chiave nella funzione di regolatore periferico dell’aggressività e che la melatonina coordina una conversione stagionale dalla regolazione gonadica a quella surrenalica dell’aggressività, mediante un’azione diretta sul surrene.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Nicole Cardon

BM&L-28 novembre 2015

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Questo genere di studi è stato condotto prevalentemente nei mammiferi, ma l’aggressività delle femmine è stata studiata nelle specie più varie e in animali filogeneticamente molto meno evoluti. Nella sezione “NOTE E NOTIZIE” si trovano recensioni di studi degli anni passati nei quali sono impiegati come riferimento i patterns di aggressività delle femmine del moscerino della frutta e dell’aceto, Drosophila melanogaster.