Schizofrenia
e riduzione della disbindina
GIOVANNI ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XXI – 06 luglio 2024.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La schizofrenia, ossia il più grave e studiato disturbo
neuropsichico dell’adulto, costituisce una categoria nosografica individuata
dalle manifestazioni cliniche ma la cui eziopatogenesi non è sicuramente
omogenea: considerando tutte le forme accomunate da deliri, allucinazioni,
sintomi negativi e cognitivi come una sola entità patologica, si riconosce una
forte componente genetica che causerebbe un disturbo pervasivo dello sviluppo
neuroevolutivo le cui conseguenze neuropsichiche, al contrario della
maggioranza delle altre forme incluse quelle dello spettro dell’autismo, si
manifestano tardivamente e progressivamente.
Un mese fa abbiamo recensito uno studio che ha definito l’alterazione
della regolazione dell’espressione di EAAT2 nella corteccia prefrontale dorso-laterale[1], fornendo un nuovo elemento
per la comprensione della disfunzione dei sistemi glutammatergici nella schizofrenia,
oggi ci occupiamo dello studio di una molecola ritenuta da alcuni ricercatori
un possibile filo di Arianna nel labirinto dell’eziopatogenesi.
La disbindina-1 è la proteina codificata da
DTNBP1, un gene di suscettibilità allo sviluppo del disturbo schizofrenico e oggetto
di notevole interesse neuroscientifico e di numerosi studi sperimentali. Un
dato, tra i più rilevanti che si conoscano circa il rapporto del polipeptide
con la clinica psichiatrica, riguarda il riscontro di difetto di disbindina-1
nei neuroni dell’ippocampo dei pazienti schizofrenici. La proteina è espressa
in numerose popolazioni cellulari del cervello e la sua importanza fisiologica
può rintracciarsi già nella sua partecipazione alla neurotrasmissione
glutammatergica, ossia basata sul più importante neurotrasmettitore eccitatorio
del sistema nervoso centrale, e alla neurotrasmissione dopaminergica, ossia il
bersaglio di tutte le classi storiche di farmaci anti-psicotici.
Sanjeev K. Bhardwaj e colleghi di
un team canadese, per indagare l’impatto della riduzione di disbindina-1
nelle cellule eccitatorie sulla trasmissione sinaptica, e in definitiva sul
comportamento, ha realizzato un nuovo modello sperimentale. I risultati dello
studio sono di sicuro interesse neuroscientifico e clinico.
(Bhardwaj
S. K. et al., Loss of dysbindin-1 in excitatory neurons in mice impacts
NMDAR-dependent behaviors, neuronal morphology and synaptic transmission in the
ventral hippocampus. Science Reports – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41598-024-65566-4, Jul 2, 2024).
La provenienza degli autori
è la seguente: Douglas Hospital Research Centre,
Douglas Mental Health University Institute, Montreal, QC (Canada); Department
of Psychiatry, McGill University, Montreal, QC (Canada); Integrated Programme in Neuroscience, McGill University, Montreal, QC
(Canada).
Come abbiamo
fatto in occasioni precedenti e stiamo continuando a fare perché sappiamo che
si aggiungono costantemente nuovi lettori[2], cogliamo l’occasione di questa recensione, sia per
introdurre il lettore non specialista agli aspetti essenziali della clinica e
della neuropatologia, sia per integrare queste nozioni con alcuni aggiornamenti
non ancora inclusi nei manuali di clinica psichiatrica. Parte dei brani
riportati di seguito sono stati citati in Note e Notizie 09-03-24 Infiammazione
nella patogenesi della schizofrenia; mentre si è scelto di non riportare
gli aggiornamenti di genetica più recenti, per i quali si rimanda a due studi
presentati in aprile[3]; più avanti, in questo testo, si danno le indicazioni
per introdursi alla genetica e alla genomica della schizofrenia.
“L’approccio
clinico alla schizofrenia o psicosi schizofrenica prevede la
ripartizione delle manifestazioni in tre gruppi di segni e sintomi: positivi,
negativi e cognitivi. I sintomi positivi, ovvero produttivi,
e in particolare deliri e allucinazioni, sono i più sensibili ai trattamenti con
farmaci antipsicotici. Al contrario, i sintomi negativi, espressione di
deficit funzionali, quali povertà di linguaggio, negativismo, anedonia, anaffettività,
perdita di motivazione e riduzione della reattività emozionale, insieme con un deficit
cognitivo progressivo, sono i più resistenti al trattamento, in quanto non
possono giovarsi dell’effetto dei farmaci attualmente in uso, che tendono a
ridurre l’eccesso funzionale dopaminergico o a riequilibrare altri neurotrasmettitori,
ma non possono surrogare funzioni deficitarie”[4]. Le basi neurofunzionali dei sintomi al livello di
sistemi neuronici sono studiate mediante fMRI, riportando le funzioni alterate
alle tre reti cerebrali principali DMN (default mode network),
CEN (central executive network), SN (salience
network); ma questo tipo di studi
ha evidenziato alterazioni in tutte e tre le reti e nelle loro interazioni in
tutti i casi di schizofrenia.
Chi voglia
introdursi alla neurobiologia del disturbo può leggere: Note e Notizie
16-09-23 Appunti di neurobiologia della schizofrenia; per la genetica: Note
e Notizie 23-09-23 Appunti di genetica della schizofrenia; Note e
Notizie 21-10-23 Genomica della schizofrenia e sue implicazioni.
A
proposito della patogenesi: “La patogenesi della schizofrenia rimane
ancora indefinita, nonostante si siano acquisite nel campo della fisiopatologia
nozioni estese dall’ambito neurochimico a quello strutturale, dal livello
sinaptico a quello delle grandi reti neuroniche dell’encefalo. La stessa
genetica che, dal tempo delle analisi di associazione del Psychiatric GWAS Consortium
Coordinating Committee (2009) si è arricchita di una
quantità enorme di dati sui geni di rischio, non ha fornito le indicazioni dalle
quali si sperava di ricavare la ratio di processi paradigmatici per l’eziopatogenesi
di alterazioni probabilmente eterogenee in termini molecolari, cellulari e di
sistemi neuronici, ma accomunate clinicamente da alcuni capisaldi
sintomatologici.”[5]
Per
inquadrare le nuove nozioni nell’evoluzione della concezione della schizofrenia:
“La schizofrenia, che interessa l’1%
della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità
mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita
di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età
adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione
generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente si
deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse dal
caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi più
semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di pazienti
con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza e, per
questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione
diagnostica di demenza praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto
relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza
delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a
conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione
del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari processi
di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per induzione,
deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[6], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione
(schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono affettivo
ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben presente il
difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli
psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la
conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e caratterizzata
da un processo patologico che si supponeva diffuso nel parenchima cerebrale,
con particolare compromissione della corteccia, ritenuta la base dei processi
intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo di studio del cervello
consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo autoptico di campioni
di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della
neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem
sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che
si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[7]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di
cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e Lhermitte
(1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale valore di
reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf Meyer e poi da
Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di una famiglia di
neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura del cervello
schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono poi artefatti
di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi cellulare e
una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono riscontro in
altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto dei focolai
reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e significatività del reperto,
postulò un ruolo eziologico per la febbre reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel cervello
schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi circa la
significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato dalle
procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[8], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata
indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello spessore
di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei cervelli
dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone non affette
da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età. I Vogt
trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei cervelli sani,
anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità variavano da un
caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule colliquanti (Schwundzellen),
degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre
cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia
è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali
e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di
neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia molecolare
e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza di alterazioni
del cervello[9]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei
recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle
funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni secondo
i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente
raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non
potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della ‘reazione maggiore’,
contrapposta alla ‘reazione minore’ costituita dai disturbi d’ansia”[10].
In passato
abbiamo affrontato il problema allora emergente dell’alterazione della funzione
talamica nella schizofrenia[11]/[12].
A
proposito dell’aver a lungo trascurato in psichiatria i sintomi cognitivi, in
parte coincidenti con alcuni sintomi negativi della schizofrenia, due anni fa si
osservava:
“La
cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come
la branca medica che si occupa di ictus, epilessie, tumori, traumi cerebrali, e
così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico,
depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui
sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore
di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento. Probabilmente,
questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo la
considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[13].
In
realtà, nella clinica psichiatrica del disturbo schizofrenico si distinguono sintomi
positivi, quali deliri
e allucinazioni, sintomi negativi, come
l’anaffettività e il negativismo, e sintomi
cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o inappropriato,
deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie di moto.
Per introdurre
alle interpretazioni neuroevolutive dei sintomi della schizofrenia correntemente
adottate dagli psichiatri, mi rifaccio a un articolo di Rossi del 20 marzo 2021[14]:
“Due anni fa ho ricordato un modello
neuroevolutivo della schizofrenia[15] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il
mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi
noxae evolutive portano alla displasia
delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando in tal
modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza,
un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica
fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione clinica
della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a processi
neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo
modello è dato dal ‘sostegno’ ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà,
si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è
stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica
rispetto all’esigenza di capire perché e come le ‘noxae’ causino una
displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una
perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[16]”[17].
Ritorniamo ora
allo studio di Sanjeev K. Bhardwaj e colleghi
sugli effetti del deficit di funzione della disbindina-1 sul cervello
schizofrenico. Come si è già accennato, i ricercatori, per indagare l’impatto
della riduzione nei neuroni eccitatori della disbindina-1 sulla trasmissione
sinaptica ippocampale e sui comportamenti direttamente influenzati dall’attività
dell’ippocampo, hanno realizzato un modello murino knockout
condizionale per delezione del gene DTNBP1 codificante la disbindina-1 nelle
cellule esprimenti CaMKIIα.
La prima evidenza all’osservazione comportamentale dei
topi knockout mediante prove standard ha evidenziato che il difetto di
disbindina-1, nelle cellule esprimenti CaMKIIα,
causa disturbo delle memorie spaziali e delle memorie sociali. Da
un punto di vista molecolare, il deficit determinava alterazioni nella via di
segnalazione eccitatoria del glutammato: 1) attenuazione degli effetti sull’attività
locomotoria di MK801, un antagonista del recettore del glutammato NMDA (N-metil-D-aspartato); 2) PPI, ossia prepulse
inhibition of startle,
ossia l’inibizione da parte di un pre-stimolo più debole di una reazione
evidente come il sobbalzare (startle
response) causata da uno stimolo più intenso; 3) riduzione nei recettori
NMDA dei livelli proteici delle subunità GluN1 e GluN2B nelle cellule
eccitatorie dell’ippocampo esprimenti CaMKIIα.
A queste alterazioni molecolari principali associate
a comportamenti, si aggiungono altri cambiamenti patologici strutturali e
funzionali di livello cellulare. I ricercatori hanno infatti osservato un’accresciuta
espressione di spine dendritiche immature, particolarmente al livello
dei dendriti basilari, e anomalie nella trasmissione sinaptica
eccitatoria dell’ippocampo ventrale.
Questi risultati evidenziano in modo chiaro e preciso
la rilevanza funzionale della disbindina-1, mostrando in modo specifico le alterazioni
molecolari, cellulari, sinaptiche e comportamentali causate da un suo deficit
nei neuroni eccitatori ippocampali, simile a quello che si ha nella schizofrenia.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del
sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-06 luglio 2024
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presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Note e Notizie 08-06-24 EAAT2
nella corteccia PFDL degli schizofrenici.
[2] Note e Notizie 18-05-24
Amigdala e sua covarianza nella schizofrenia; Note e Notizie 15-06-24 Stem
olfattive come modello di disfunzioni nella schizofrenia.
[3] Si vedano: Note e Notizie 27-04-24
Espressione genetica corticale e rapporti con autismo e schizofrenia; Note
e Notizie 20-04-24 Determinanti genetici condivisi tra autismo e schizofrenia.
[4] Note e Notizie 18-11-23 Reti alterate nella schizofrenia con sintomi negativi
persistenti.
[5] Note e Notizie 04-03-23 Il deficit di recettori H2 nella patogenesi della
schizofrenia.
[6] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella storia”
si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali, elenca l’evoluzione
che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime tracce scritte, risalenti
al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[7] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[8] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[9] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[10] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.
[11] Note e Notizie 17-03-21
Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.
[12] Note e Notizie 03-07-21 Talamo
anteriore nei difetti cognitivi di autismo e schizofrenia.
[13] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda
anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e
volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume
sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia
la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi
per una diagnosi precoce.
[14] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[15] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[16] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di fenotiazinici,
butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione efficaci nel ridurre
deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti anni si è
consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[17] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo.