Nella
malattia di Alzheimer βA e attività danno patologia tau entorinale
GIOVANNI ROSSI
NOTE E
NOTIZIE - Anno XXII – 11 ottobre 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale
di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a
notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la
sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici
selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori
riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
È così febbrile il ritmo della
produzione scientifica nel campo della ricerca sulla malattia di Alzheimer, che
è difficile scegliere fra i numerosi studi meritevoli di attenzione che si
pubblicano ogni giorno e quasi impossibile escludere l’argomento nella nostra
selezione settimanale di lavori da presentare ai visitatori del nostro sito. Se
la scorsa settimana abbiamo proposto uno studio che riprende il filone di ricerca
sul cervelletto nella demenza neurodegenerativa e dimostra una relazione tra la
riduzione volumetrica di questa struttura e il progressivo decadimento delle
prestazioni cognitive dei pazienti, questa settimana ci occupiamo dell’annosa
questione relativa a quali processi determinano la priorità temporale delle
sedi cerebrali colpite dalla neurodegenerazione.
La corteccia entorinale,
così importante per l’organizzazione dell’attività locomotoria in uno spazio
nuovo e per l’orientamento nel comportamento perlustrativo, è la prima regione
del cervello a sviluppare la patologia tau, ossia la sequenza di eventi
che, attraverso l’iperfosforilazione di questa proteina legata ai microtubuli,
porta alla formazione di ammassi di aggregati filamentosi o tangles
intraneuronici, cioè uno dei due contrassegni – l’altro essendo costituito
dalle placche β-amiloidi extracellulari – descritti già da Alois
Alzheimer. Da molti anni la domanda sul perché la corteccia entorinale sia la
prima regione colpita, che implicitamente rimanda al meccanismo responsabile
dell’innesco regionale della patologia tau, è rimasta senza risposta. Christoffer
G. Alexandersen e colleghi hanno sviluppato un modello computazionale di
un’ipotesi di lavoro su cui hanno strutturato il loro studio: l’attività
neurale e i peptidi β-amiloidi modulano il trasporto della proteina tau e
tale meccanismo può spiegare la vulnerabilità della corteccia entorinale.
Gli esiti dello studio sono degni di nota.
(Alexandersen C.
G. et al., Neuronal activity and amyloid-β promote tau seeding in the
entorhinal cortex in Alzheimer’s disease. Brain – Epub ahead of print doi: 10.1093/brain/awaf374, 2025).
La
provenienza degli autori è la seguente: Department of Bioengineering, School of
Engineering and Applied Science, University of Pennsylvania, PA (USA); Mathematical
Institute, University of Oxford (Regno Unito); Department of Electrical &
Systems Engineering, School of Engineering and Applied Science, University of
Pennsylvania. PA (USA); Department of Physics & Astronomy,
School of Arts & Sciences, University of Pennsylvania, PA (USA); Departments
of Neurology & Psychiatry, Perelman School of Medicine University of
Pennsylvania, PA (USA); The Neuro, Montreal Neurological Institute, McGill
University (USA); Santa Fe Institute (USA); Clinical Memory Research, Lund
University (Svezia).
Come abbiamo fatto altre volte nel 2023[1], nel
2024[2], nel
mese di febbraio[3]
e più di recente[4],
cogliamo l’occasione di questa recensione per introdurre il lettore non
specialista alla malattia di Alzheimer e proporre alcuni importanti risultati
della ricerca su questa patologia neurodegenerativa, attingendo prevalentemente
a un nostro articolo del 2022, che trae da altri precedenti[5]-[6].
Si riporta lo
storico brano di Alois Alzheimer che descrive clinicamente lo stato della
paziente Auguste Deter: “Una donna di 51 anni ha mostrato gelosia verso suo marito
come primo segno rilevante della malattia. Presto si è potuta notare una
perdita di memoria rapidamente ingravescente. Non era in grado di orientarsi
nel suo appartamento. Portava oggetti avanti e indietro e li nascondeva. A
volte pensava che qualcuno volesse ucciderla e cominciava ad urlare”[7]. Ricordiamo
che Alzheimer con queste parole introdusse il caso paradigmatico di una donna
ammalata di demenza presenile con sintomi psicotici, che morì nel giro di pochi
anni: nei casi familiari della malattia la prognosi è ancora la stessa.
Nel 1906 il neuropatologo tedesco Alois
Alzheimer studia al microscopio preparati istologici ricavati da sezioni
sottili del cervello di una sua paziente affetta da una complessa e invalidante
malattia neuropsichica, caratterizzata da una grave forma di deterioramento
mentale ad insorgenza precoce ed andamento rapidamente ingravescente. Descrive
due tipi di lesioni che ricollegherà all’eziopatogenesi della malattia: le
placche e le alterazioni neurofibrillari. La pubblicazione di questi dati, nel
1907, avvierà la ricerca su quale sia il primum
movens patogenetico, le placche amiloidi o la degenerazione neurofibrillare[8].
All’originario lavoro di Alzheimer,
Perusini aggiunse nel 1909 tre nuove osservazioni anatomo-cliniche molto
dettagliate[9] e i suoi
studi negli anni successivi (1910-1911) consentirono la comprensione di alcuni
rilevanti aspetti clinici e patologici, così che la malattia detta in Germania
“morbo di Alzheimer”, divenne nota in Italia come “morbo di
Alzheimer-Perusini”. Il grande nosografista Kraepelin la ritenne una forma
grave e precoce di demenza senile, secondo il concetto di senilità precoce di
Fuller, anche se già nel 1910 le riconosceva autonomia nosografica costituendo
la nuova categoria diagnostica della malattia di Alzheimer[10].
Anche se l’identificazione di questa
nuova malattia da parte di Alois Alzheimer destò l’interesse di neurologi e
ricercatori dell’epoca, per molto tempo fu vista solo come una curiosità medica
perché rarissimamente diagnosticata. Per decenni, le ipotesi sulla sua
eziologia e le opinioni sulle caratteristiche della patologia e della clinica
hanno ispirato filoni di ricerca ed acceso dibattiti, senza però migliorare la
conoscenza e la comprensione dei processi alla base di questa grave ed
inesorabile perdita delle funzioni mentali e più in generale cerebrali, che
termina con esito infausto.
“Si può dire che il primo reale
progresso fu compiuto nel 1984, quando George G. Glenner dell’Università della
California a San Diego riuscì ad isolare dal materiale amiloide delle placche
un corto peptide, costituito da 40 o 42 aminoacidi, cui si diede il nome di
peptide β-amiloide (Aβ).
Poco tempo dopo quattro diversi gruppi
di ricerca sequenziarono il gene che codifica la proteina da cui il peptide
origina. Così come erano parse sorprendenti le piccole dimensioni del peptide
in grado di formare fibrille e accumuli di sostanza extracellulare, sorpresero
le grandi dimensioni della proteina codificata dal gene di recente individuato.
Il peptide beta-amiloide era un frammento di una macromolecola di membrana cui
si diede il nome di precursore del peptide beta amiloide o beta-amyloid precursor protein o βAPP. […]
Nel 1991, studiando il DNA di una
famiglia con Alzheimer ad insorgenza precoce, un gruppo della St. Mary’s
Hospital Medical School di Londra localizzò il gene per la βAPP sul
cromosoma 21 e dimostrò che la mutazione puntiforme si verificava proprio nel
frammento di DNA codificante il polipeptide precursore. All’incirca in quello
stesso periodo altri studi indicavano che in famiglie in cui ricorreva la
malattia di Alzheimer il cromosoma 21 poteva essere portatore di un difetto.
Questa correlazione era molto suggestiva perché da tempo era noto che i
soggetti affetti da sindrome di Down o trisomia 21, quando vivono
sufficientemente a lungo, invariabilmente sviluppano i sintomi di una patologia
simile all’Alzheimer.
L’idea che il peptide Aβ fosse all’origine
della cascata di eventi determinante la progressione della malattia era ormai
opinione dominante, nota come “teoria dell’amiloide”, e i dati genetici
sembravano confermarla in pieno. Ben presto si formò una vera e propria scuola
di pensiero che ebbe, ed ha tuttora, in Dennis Selkoe uno dei maggiori
esponenti. […]
Nel 1992 Allen Roses sfidò l’ortodossia
β-amiloide: annunciò di aver identificato un gene di suscettibilità per lo
sviluppo delle forme più frequenti, ad insorgenza nell’età media e avanzata. Si
trattava del gene per l’allele “ε4” dell’apolipoproteina E (APOE), cioè
una variante di una lipoproteina che trasporta il colesterolo. […]
La teoria dell’amiloide sembrò avere una
conferma decisiva nel 1995 quando Peter H. St George Hyslop, con i suoi
collaboratori, clonò due geni cui diede il nome di presenilina 1 e presenilina 2.
Le alterazioni di questi geni erano state messe in relazione con una forma
della malattia estremamente aggressiva e ad insorgenza molto precoce, in cui la
sintomatologia talvolta esordiva già intorno ai 28 anni, divenendo presto molto
grave. […]
Nel 1998 Rudolph Tanzi, genetista di
Harvard, ritenne di aver identificato sul cromosoma 12, in un gene detto A2M,
un altro importante fattore di suscettibilità: la sua tesi era che questo gene
fosse in grado di determinare il tasso di produzione di β-amiloide da
parte dei neuroni. L’ipotesi fu respinta, non solo da coloro che dubitavano del
valore della ricerca sui geni di suscettibilità, ma dallo stesso Allen Roses,
il quale aveva lavorato a quel locus del cromosoma 12, addirittura registrando
un brevetto sull’A2M e, successivamente, si era convinto della mancanza di un
legame diretto con la patologia. […]
Il precursore della proteina
β-amiloide (βAPP) è sintetizzato da molte specie cellulari ed è una
proteina di membrana, la cui lunghezza varia da 695 a 770 aminoacidi. Le due
estremità idrofile della macromolecola sporgono l’una nel citoplasma e l’altra,
la più lunga, nello spazio extracellulare. Da quest’ultima proviene il peptide
beta-amiloide.
La funzione fisiologica non è nota[11]
ma si sa che va incontro ad un processo di scissione enzimatica secondo due
diverse modalità. […]
La prima
modalità prevede una tappa catalizzata da un enzima detto α-secretasi, in grado di scindere
dal precursore un peptide che sarà attaccato da un secondo enzima, la γ-secretasi, la cui azione dà
origine ad un frammento fisiologico, definito p3.
Questa modalità, ossia la scissione
mediante
α-secretasi/γ-secretasi, dà sempre luogo ad un peptide non
patogeno.
La seconda
modalità differisce per l’enzima che interviene nella prima tappa, in
questo caso è la β-secretasi:
uno dei frammenti prodotti, costituito da 99 aminoacidi, il C99-βAPP,
sottoposto all’azione della γ-secretasi dà luogo alla formazione del
peptide β-amiloide[12].
La successione beta-secretasi/gamma secretasi genera per il 90% molecole di 40
aminoacidi e, per la parte rimanente, peptidi di 42 aminoacidi. Solo questa
piccola frazione sembra in grado di innescare la successione di eventi che
determina la formazione delle placche”[13].
Queste nozioni costituiscono ormai una base
consolidata delle conoscenze patologiche sul gravissimo e ancora inguaribile
processo neurodegenerativo. Riportiamo ora, qui di seguito, elementi di più
recente acquisizione tratti dall’introduzione a uno studio presentato tre anni
fa[14].
La malattia di Alzheimer, la più comune[15] e grave demenza neurodegenerativa,
costituisce una categoria nosografica definita in base ad elementi patogenetici
e clinici comuni, ma in realtà costituita da forme diverse per eziologia,
che può essere esclusivamente genetica (forme familiari) o multifattoriale e
prevalentemente indeterminata (forme sporadiche); per esordio, che può
essere precoce, presenile[16], nell’età media della vita oppure
in età senile o più spesso nella tarda senilità; e per fisiopatologia: può
presentare entrambi i contrassegni istopatologici descritti da Alzheimer e
Perusini, ossia placche amiloidi neuritiche e grovigli neurofibrillari
intraneuronici, oppure uno solo dei due, presentandosi come tipo con placche
soltanto (plaque only type) o come taupatia senza placche
evidenti associata a demenza[17].
La maggior parte dei ricercatori che ritiene
irrilevante la differenza causale di fronte ad una patogenesi pressoché
identica in tutte le forme suppone che, nella sequenza di eventi patogenetici,
si possa identificare una tappa da bloccare per ottenere l’arresto della
progressione in tutti i casi; fra coloro che considerano rilevante il primum
movens etiologico, vi sono ricercatori che attribuiscono al rapporto
biochimico fra evento causale e innesco della patogenesi un valore di
conoscenza chiave per giungere a trattamenti (ed eventuali programmi di
prevenzione) specifici per le singole forme.
In ogni caso, lo studio della genetica è importante
perché, anche se le forme eredo-familiari costituiscono una esigua minoranza,
anche in quelle ad eziologia ignota si suppone un ruolo non irrilevante del
genotipo per lo sviluppo della malattia. Inoltre, la ricerca condotta
soprattutto negli ultimi decenni sulle cause genetiche delle anomalie
molecolari riscontrate, pur non essendo stata ancora decisiva per la
comprensione dell’origine della maggioranza dei casi, ha fornito dati e nozioni
di notevole interesse. Un esempio è l’identificazione da parte di St.
George-Hyslop e colleghi, in pazienti affetti da forme ereditarie della
malattia, di geni codificanti versioni alterate della APP (amyloid precursor
protein) localizzati sul cromosoma 21 accanto al gene βA. Questa scoperta
ha fornito una spiegazione per le alterazioni alzheimeriane – in passato
interpretate come invecchiamento precoce – che si rilevano nel cervello di
tutti gli affetti da sindrome di Down o trisomia 21 che vivano oltre i 28 anni:
avendo tre copie del cromosoma 21, producono amiloide in eccesso.
Anche se la scoperta ha consentito di spiegare quel
dato patologico interpretato come segno di invecchiamento precocissimo del
cervello nella sindrome di Down, rende conto della probabile causa solo di una
piccolissima frazione di casi eredo-familiari di malattia di Alzheimer che, a
loro volta, costituiscono una piccola parte del totale. In altre stirpi
familiari studiate per la presenza di casi ad ogni generazione, ereditati
verosimilmente come un carattere mendeliano autosomico dominante, sono state
identificate rare mutazioni nel gene della presenilina 1 (localizzato sul
cromosoma 14) responsabili in alcuni studi fino al 50% dei casi familiari, e
della presenilina 2 (localizzato sul cromosoma 1) responsabile di una quota
degli altri casi ereditari[18].
La presenza di amiloide aberrante da sola non è in
grado nel resto della popolazione di causare la malattia neurodegenerativa,
così si sono studiati i geni associati quali fattori di rischio. Il primo ad
essere scoperto fu “Apo E”[19], un regolatore del metabolismo
lipidico che ha un’affinità per la β-amiloide delle placche neuritiche
della malattia di Alzheimer e si è rivelato in grado di modificare il rischio
di acquisire la malattia di Alzheimer. In particolare, fra le varie isoforme
della lipoproteina, la presenza di E4 e del suo corrispondente allele ε4 sul
cromosoma 19 è associata ad una probabilità tripla di sviluppare la malattia.
Il possesso di due alleli ε4 sembra dare certezza della malattia a coloro
che superano gli ottanta anni. L’allele ε4 modifica anche l’età di esordio
di alcune delle forme familiari della malattia. Vari studi hanno dimostrato
che, all’opposto, l’allele ε2 è poco rappresentato nelle persone affette
da malattia di Alzheimer.
Anche se decisamente più raro delle
varianti di Apo E, un polimorfismo in TREM2 conferisce uguale probabilità di
sviluppare la malattia. Nelle forme sporadiche, questo polimorfismo è
responsabile di un difetto di fagocitosi dell’amiloide che avviene nel normale
ciclo fisiologico, contribuendo all’accumulo. Altri meccanismi ipotizzati per
la partecipazione delle varianti di questo gene alla patogenesi non hanno
ancora ricevuto conferma sperimentale.
Un’altra variazione genica, implicata
sicuramente in forme familiari della malattia di Alzheimer, è stata registrata
presso il sito dell’ubiquilina 1, cioè UBQLN1 codificante una proteina
che interagisce con PS1 e PS2, oltre a partecipare alla degradazione
proteasomica.
L’importanza dello studio della genetica
si può desumere dagli importanti elementi di conoscenza che sono stati ottenuti
dall’analisi di interi alberi genealogici di pazienti affetti dalla demenza
neurodegenerativa.
Nei cenni storici sulle origini di questa patologia si
cita sempre il caso di Auguste Deter, la paziente che morì a soli 55 anni e dal
cui cervello Alois Alzheimer prelevò i campioni sui quali scoprì placche
amiloidi e ammassi neurofibrillari, ma non si riporta di un secondo caso,
pubblicato dal neurologo tedesco col nome di Johann F. e caratterizzato
dall’assenza di degenerazione neurofibrillare, cioè il primo paziente affetto
dal plaque only type[20]. Nel suo cervello, oltre ai segni
generici di encefalopatia atrofica, si rilevavano solo gli accumuli
macroscopici di amiloide extracellulare, denominati da Alzheimer placche
senili, secondo la terminologia anatomopatologica dell’epoca. La ricorrenza
della malattia nella famiglia di Johann aveva indotto a supporre già a
quell’epoca una causa genetica. In questo secolo, quando i ricercatori impegnati
nella ricerca del primum movens causale della malattia si dividevano in
due fazioni, la prima sostenitrice della “teoria della β-amiloide” con
capofila Dennis Selkoe e la seconda sostenitrice della “teoria della tau”,
rappresentata dalla scuola di Rudolf Tanzi, si decise di andare alla ricerca
dei discendenti di Johann per verificare se fra loro vi fossero ammalati di
demenza neurodegenerativa e studiarne esaustivamente il profilo biomolecolare.
In estrema sintesi, i sostenitori della “teoria della
β-amiloide” ritenevano che i peptidi βA amiloidogenici, ossia
quelli generati dalla scissione della γ-secretasi con una lunghezza uguale
o superiore a 42 aminoacidi, innescassero tutte le catene di eventi culminanti
in degenerazione, apoptosi e necrosi; i sostenitori della “teoria della tau”
ritenevano che l’iperfosforilazione della proteina associata ai microtubuli tau
fosse responsabile della sequenza di eventi che porta a morte i neuroni e
consideravano le placche amiloidi delle semplici “pietre tombali” formate nelle
sedi di distruzione del tessuto nervoso. Per i sostenitori di questa seconda
tesi, i casi come quello di Johann, in cui vi erano solo placche senza ammassi
neurofibrillari, erano dovuti a una causa da scoprire, ma sempre
intraneuronica.
Klunemann e colleghi afferenti alla Clinica
Psichiatrica dell’Università di Regensburg (Germania) riuscirono a rintracciare
i discendenti del secondo paziente di Alzheimer, ne studiarono il profilo
genetico secondo le acquisizioni più recenti di quegli anni, ricostruirono
l’albero genealogico e poi chiesero l’aiuto di St. George-Hyslop[21]. I ricercatori fecero un lavoro
straordinario: grazie a numerose tracce documentali reperite con l’aiuto delle
famiglie dei pazienti, riuscirono a risalire lungo la linea degli antenati fino
al 1670, ed elaborarono un fedele albero delle parentele che al 2007 contava
1403 discendenti. I quattro discendenti affetti da demenza all’epoca dello
studio, la avevano ereditata come un carattere mendeliano semplice autosomico
dominante. Klunemann, St. George-Hyslop e colleghi testarono i “geni di
rischio dominanti” allora noti, ossia APP, PS1, PS2, PRNP e BRI, senza riuscire
a trovare un allele già identificato come patologico[22]. Anche se questo studio non
identificò la causa genetica dell’Alzheimer di quella stirpe, contribuì alla
demolizione della dicotomia β-amiloide/tau. Infatti, se il primum
movens sono i peptidi βA, in grado di innescare reazioni che portano
nei neuroni all’iperfosforilazione della tau con conseguente degenerazione
fibrillare seguita da distruzione degli assoni e poi del corpo cellulare
neuronico, come e perché avviene la distruzione neuronica con gli stessi esiti
clinici senza la distruzione della tau? La conclusione ipotetica della nostra
scuola neuroscientifica è che ci si trova di fronte a patologie diverse che non
differiscono solo nell’innesco eziologico ma anche, sia pure in parte, nella
patogenesi.
Per dirimere queste questioni sarà necessario scoprire
i meccanismi molecolari che mediano gli effetti dei molteplici fattori causali
e, visto che le alterazioni molecolari e i processi patologici finora esaminati
si sono rivelati quanto meno insufficienti ad orientare delle risposte, si è
proceduto attraverso analisi del trascrittoma, i cui risultati hanno
suggerito nuovi progetti di ricerca[23].
Dopo questa introduzione sulla malattia di Alzheimer,
ritorniamo allo studio di Christoffer G. Alexandersen e colleghi centrato
sull’obiettivo di comprendere le ragioni della vulnerabilità selettiva della corteccia
entorinale, la prima regione cerebrale ad essere interessata dalla
patologia tau nelle persone affette. Come abbiamo accennato più sopra, i
ricercatori hanno messo a punto un modello computazionale che
riproduceva la modulazione del trasporto della proteina tau da parte
dell’attività neuronica e della βA
(β-amiloide), secondo l’ipotesi che sia proprio questo meccanismo il
responsabile della vulnerabilità precoce e selettiva della corteccia
entorinale nella patologia
neurodegenerativa alzheimeriana.
Il modello realizzato da Alexandersen
e colleghi combina la connettività
strutturale, sia con l’attività neuronica, misurata mediante FDG (fluoro
deossiglucosio) PET, sia con il carico di βA, misurato grazie a
βA-PET.
I ricercatori hanno
cimentato il modello con i dati ottenuti dalla ADNI (Alzheimer’s Disease Neuroimaging
Initiative) e, in particolare: 1) 527 scansioni FDG PET provenienti da persone
con un’età media di 71.8 anni, di cui 174 cognitivamente normali, 293 affetti
da MCI (mild cognitive impairment) e 60 diagnosticati di malattia di
Alzheimer; 2) 1244 scansioni βA-PET provenienti da persone con un’età
media di 72.4 anni, di cui 501 cognitivamente normali, 588 affetti da MCI e 155
diagnosticati di malattia di Alzheimer.
Di queste scansioni, 253
FDG-tau e 453 βA-tau sono state usate nelle analisi di regressione. I risultati
chiave sono stati replicati nell’Harvard Aging Brain Study (HABS; 300 FDG, 348
βA, 116 FDG-trau e 255 βA-tau appaiati). Sia i modelli basati su FDG
sia quelli basati su βA coerentemente identificavano la corteccia
entorinale quale regione primaria nello sviluppo della patologia tau. La
regressione lineare semplice mostrava associazioni modeste tra il seeding
derivato dal modello e la tau entorinale empirica in ADNI.
L’insieme dei dati emersi,
per il cui dettaglio si rinvia alla lettura del testo integrale dell’articolo
originale, supporta un ruolo in termini di meccanismo per l’attività neuronica
e la βA nell’avviare la patologia tau, con la corteccia entorinale
emergente quale sede altamente vulnerabile. Gli autori dello studio concludono
che il loro modello computazionale identifica in modo affidabile questa regione
come l’epicentro della patologia, e supporta l’idea che i pattern di
attività estesi all’intero cervello e l’entità dei depositi amiloidi siano
affidabili indicatori della regione in cui ha inizio la patologia tau.
L’autore della nota ringrazia
la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle
recensioni di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito
(utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovani Rossi
BM&L-11 ottobre 2025
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Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come
organizzazione scientifica e culturale non-profit.
[1] Note e Notizie 17-06-23 Scoperto nella malattia di Alzheimer uno stato
protettivo della microglia; Note e Notizie 24-06-23 Scoperte popolazioni cellulari associate alla malattia
di Alzheimer.
[2] Note e Notizie 16-11-24 Cambi trascrittomici astrocitari nella malattia di
Alzheimer; Note e Notizie 07-12-24 Come prevenire il deficit cognitivo nella malattia di
Alzheimer.
[3] Note e
Notizie 01-02-25 Sonno REM
ritardato e malattia di Alzheimer; Note e Notizie 08-02-25 FGF23 delle cellule β del
pancreas protegge dalla malattia di Alzheimer.
[4] Note e
Notizie 01-03-25 Alterazioni
intestinali nella malattia di Alzheimer studiate con XPCT; Note e Notizie 08-03-25 NU9 contrasta la patogenesi della
malattia di Alzheimer; Note e Notizie
22-03-25 LMO4 del CSF
nuovo marker della malattia di Alzheimer; Note e Notizie 29-03-25 Testosterone nella differenza di
genere della malattia di Alzheimer; Note e Notizie 05-04-25 Aggregazione βA inibita da
gangliosidi nella malattia di Alzheimer; Note e Notizie 03-05-25 Malattia di Alzheimer
come patologia immunitaria; Note e Notizie 10-05-25 G9a in patogenesi e
terapia della malattia di Alzheimer; Note e Notizie 24-05-25 Declino
cognitivo nei due sessi nella malattia di Alzheimer; Note e Notizie
21-06-25 Ruolo del sistema glinfatico nella malattia di Alzheimer; Note
e Notizie 21-06-25 La delezione di STING protegge dalla malattia di Alzheimer;
Note e Notizie 27-09-25 C4d è alto nella malattia di Alzheimer e media il
pruning.
[5] Note e Notizie 25-06-22 La malattia di Alzheimer potrà essere trattata con
ERp57. Per lo studio su ERp57 si rinvia
alla lettura di questa nota, perché in questo testo non è stata ripresa la
recensione dello studio di Di Risola e colleghi del giugno 2022.
[6] V. anche: Note e Notizie
07-10-22 Atlante a
singola cellula rivela dati per cognizione e Alzheimer.
[7] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann, paziente di Alzheimer. Dopo il caso celeberrimo di
Auguste D., Alzheimer pubblicò un secondo caso, quello di Johann F. in cui era
assente la degenerazione neurofibrillare (plaque only type); si veda la
nostra interessante recensione dello studio dei discendenti affetti da questa
forma ereditaria di malattia di Alzheimer.
[8]
Alzheimer A., Ueber eigenartige Erkrankung der Hirnrinden, Allg. Ztschr. Für Psychiat. 1907.
[9]
Perusini G., Ueber klinisch und histologisch eigenartige psychische
Erkrankungen des spateren Lebensalters, Hist.
und Histopathol. Arb. Nissl. 3: 297, 1910.
[10]
Cfr. Kraepelin E., Lehrbuch der
Psychiatrie, Barth, Leipzig 1912.
[11] Numerosi studi hanno fornito nel
frattempo (il testo monografico è del 2004) evidenze che indicano ruoli
fisiologici della βAPP; di questi studi si trovano recensioni nelle “Note
e Notizie” di questi anni.
[12] Su questa base si impiegano in
terapia gli inibitori di BACE (Beta-secretase
cleaving enzyme).
[13] Perrella G., op. cit., idem.
[14] Note e Notizie 28-11-20 Nella
malattia di Alzheimer deregolazione di geni e isoforme.
[15] La prevalenza di 10.800 su
100.000 fra gli ultra ottantenni è stima ricorrente in vari studi condotti in
tutto il mondo.
[16] In rare forme familiari sono
stati descritti casi con esordio in età giovanile. Nei criteri diagnostici si
considera un’età sempre superiore ai 40 anni.
[17] L’Adams e Victor’s, ossia
l’attuale gold standard in neurologia clinica, ribadendo che è superata
la distinzione fra demenza senile e malattia di Alzheimer (classificata in
passato come demenza presenile perché la prima paziente di Alois
Alzheimer aveva solo 51 anni all’esordio, e perché fino a qualche decennio fa
si diagnosticavano come malattia di Alzheimer solo i casi a insorgenza precoce)
propone di considerare related but separable le varie forme
eredofamiliari finora accertate e descritte (Adams e Victor’s Principles of
Neurology by Allan H. Ropper, Martin A. Samuels, Joshua Klein, 10th
edition, p. 1063, McGraw-Hill, New York 2014). Non tutte le volte che si rileva
un marcato declino cognitivo in età avanzata, con punteggi dei test
corrispondenti alle prestazioni dei pazienti affetti dalla grave patologia
neurodegenerativa, ci troviamo di fronte alla malattia di Alzheimer: il
trattamento cognitivo con CACR (sistema computerizzato ideato dai coniugi
Gianutsos con Luciano Lugeschi al Bellevue Hospital), nuove versioni o sistemi
equivalenti, determina miglioramento e talvolta totale recupero nei casi non
dovuti a neurodegenerazione alzheimeriana; presentazioni cliniche
indistinguibili da quella della malattia di Alzheimer possono presentare la
paralisi sopranucleare progressiva, la malattia a corpi di Lewy, la
degenerazione cortico-basale, la malattia di Pick (ossia la degenerazione
lobare fronto-temporale) e altre patologie neurodegenerative non alzheimeriane.
[18]
Bateman R. J., et al. Clinical and biomarker changes in dominantly inherited
Alzheimer disease. New
England Journal of Medicine
367: 367, 2012.
[19] Il massimo studioso di questo
fattore di rischio è stato Allen Roses, ai cui studi si rimanda per la
dettagliata documentazione del percorso di ricerca che ha condotto alle
conoscenze attuali sul ruolo di Apo E ε4.
[20] Costituisce uno specifico
sottogruppo nella classificazione internazionale più spesso adottata.
[21] Note e Notizie 17-03-07 I
discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[22] Cfr. Note e Notizie 17-03-07
I discendenti di Johann paziente di Alzheimer.
[23] Si veda Note e Notizie
24-04-21 Metaboliti noti con ruoli causali nella malattia di Alzheimer.