Notule
(A cura di LORENZO L. BORGIA & ROBERTO COLONNA)
NOTE
E NOTIZIE - Anno XXII – 08 novembre 2025.
Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org
della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia”
(BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi
rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente
lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di
pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei
soci componenti lo staff dei
recensori della Commissione Scientifica
della Società.
[Tipologia del
testo: BREVI INFORMAZIONI]
Malattia di Alzheimer: la microglia
modula la reattività degli astrociti dipendente dall’amiloide. Numerose
prove sperimentali suggeriscono che la microglia attivata induce la reattività
astrocitaria dipendente dall’amiloide nella patologia alzheimeriana. Un
numeroso gruppo di ricerca coordinato da Eduardo R. Zimmer ha analizzato questo
processo e ha rilevato che la patologia β-amiloide era associata alla
reattività astrocitaria, all’interno della corteccia cerebrale, solo in
presenza di attivazione della microglia. Gli effetti dei peptidi β-amiloidi
sulla reattività astrocitaria, dipendenti dalla microglia, sono risultati in
stretto rapporto con il deterioramento cognitivo attraverso
l’iperfosforilazione e l’aggregazione della proteina tau. Dunque, l’attivazione
della microglia ha un ruolo chiave per le conseguenze patologiche della
reattività astrocitaria associata a β-amiloide. [Cfr. Nature
Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-02103-0, 2025].
Neuroprotesi che consente di vedere ai
ciechi: compiuto uno straordinario passo avanti. La
cecità costituisce la menomazione percettiva più grave e, in assoluto, la disabilità
di maggiore impatto sulla vita di una persona. Lo studio per realizzare neuroprotesi
di impianto corticale guidate da AI sembra essere giunto ad una svolta
decisiva. Fabrizio Grani e colleghi coordinati da Eduardo Fernandez hanno
impiantato una microprotesi costituita da 100 microelettrodi nella corteccia visiva di due volontari non
vedenti, sperimentando una funzione a due vie. A differenza di quanto fatto in
precedenza, in questo caso i microelettrodi non producono
solo stimolazione, ma agiscono anche da rilevatori e fanno fronte all’apparire
di fosfeni individuali. In tal modo, i pattern di stimolazione sono
adattati come nel processo naturale di visione.
L’impianto è stato realizzato con una
procedura chirurgica di alta precisione: il blocco di microelettrodi
misura solo 4 mm ed è stato inserito sotto guida robotica attraverso un accesso
di 8-10 mm, riducendo al minimo l’impatto chirurgico. [Cfr. Science Advances 11 (45) – AOP doi: 10.1126/sciadv.adv8846, 5
November, 2025].
Malattia di Alzheimer: i microchip
per riacquistare la memoria dei volti al vaglio dei neuroscienziati. La
terapia dei difetti di memoria realizzata da un team della Stanford University
mediante la creazione di memorie digitali immagazzinate in microchip
ultrasottili impiantati nel cervello del paziente è ora al vaglio della
comunità neuroscientifica internazionale. Secondo le intenzioni degli autori la
memoria artificiale dovrebbe riattivare neuroni attivi nei processi di memoria
e prevenirne la degenerazione. L’impianto in un paziente di 70 anni, che non
riconosceva più suo nipote da cinque anni, ha consentito il riconoscimento,
secondo i ricercatori di Stanford per il supporto dato dal microchip
alla memoria emozionale dell’uomo affetto da malattia di Alzheimer.
Le obiezioni e i dubbi sollevati in seno
alla comunità neuroscientifica sono numerosi, prima fra tutte la concezione
semplicistica del riconoscimento dei volti di rilievo affettivo, in quanto non
si conosce ancora l’esatto rapporto tra il giro fusiforme o area dei volti
e la rete neuronica connessa che, peraltro, sembra presentare differenze
individuali non trascurabili.
Secondo alcuni il microchip
agirebbe più con un effetto di stimolo aspecifico di attivazione di neuroni di
supporto per il riconoscimento, che come memoria artificiale. Infatti, è nota
la differenza tra il mancato riconoscimento di volti da danno focale e la
progressiva perdita della capacità di riconoscimento associata al progredire
delle demenze neurodegenerative per la perdita diffusa di neuroni corticali. In
ogni caso, si è avviato un dibattito sull’introduzione di queste microprotesi di memoria nel trattamento clinico della
malattia. [BM&L-Italia, novembre 2025].
La mappatura del dendritoma
rivela l’organizzazione spaziale morfologica dei neuroni dello striato. Chang
Sin Park e colleghi hanno mappato in un atlante tridimensionale la morfologia
dendritica di migliaia di neuroni medi spinosi dello striato di tipo D1 e D2,
nell’encefalo di topi a fenotipo naturale (wild type) e di topi costituenti
modello sperimentale della malattia di Huntington. Con una tecnica molto
sofisticata, e basandosi sui dati dell’atlante 3D da loro realizzato, i
ricercatori hanno potuto identificare 6 moduli con peculiari
caratteristiche dendritiche, ciascuno servito da specifici impulsi
corticostriatali. I moduli dendritici nell’invecchiamento fisiologico
apparivano atrofici, mentre nei modelli di malattia di Huntington presentavano
specifici difetti regionali. [Cfr.
Nature Neuroscience – AOP doi: 10.1038/s41593-025-02085-z, 2025].
Un pesce con un udito simile a quello
umano: come è stato possibile questo adattamento? Come
sia stata possibile l’evoluzione di un organo acustico tanto efficiente e simile
a quello umano, è stato ricostruito da Juan Liu e
colleghi dell’Università della California a Berkley, analizzando un fossile di
67.000.000 di anni fa. Il subordine Otophysan,
che contiene quasi il 70% delle specie ittiche di acqua dolce, in epoca remota
era passato dal mare all’acqua dolce, e si riteneva che l’adattamento acustico
si fosse verificato in acqua dolce. Ora i ricercatori hanno accertato che, già
all’epoca in cui questa specie ittica viveva nell’oceano, era cominciato il
cambiamento evolutivo che ha portato lo sviluppo dell’apparato weberiano (orecchio
medio) da una costola e il collegamento della vescica natatoria con l’orecchio
interno. [Cfr. Juan Liu et al., Science, 2025; 390
(6768): 65, 2025].
La migliore foto naturalistica del 2025
ritrae la rarissima iena bruna (Parahyaena brunnea). Wim van den Heever ha lavorato per 10 anni lungo la costa della
Namibia meridionale per lo scatto perfetto che ha immortalato un esemplare
della rarissima iena bruna, superando le oltre 60.000 foto in concorso e
aggiudicandosi il riconoscimento di Best Wildlife Photo of 2025. Anni di
appostamenti e di attese degli scatti della sua camera trap sono stati
premiati con il titolo di “LXI Wildlife Photographer
of the Year”, conferito a Wim van den
Heever dal Museo di Storia Naturale di Londra. La
foto ritrae la iena accanto al rudere di un edificio in rovina di una “città
fantasma”, sorta intorno a una miniera poi abbandonata, ed ha l’eloquente
titolo: “Ghost Town Visitor”.
Le iene brune hanno una gerarchia
sociale simile a quella dei lupi, con clan composti da una famiglia allargata
di 4-6 membri: tutto il clan collabora all’allevamento dei cuccioli e difende
il proprio territorio, che marca col secreto di una ghiandola posta sotto la
base della coda. Le gerarchie nell’organizzazione sociale rimangono in genere
stabili e la “femmina alfa” è sempre la più anziana, ma un maschio può scalare
la gerarchia uccidendo il maschio di livello superiore. Sono molto interessanti
i rapporti all’interno dei clan, che includono manifestazioni
aggressivo-comunicative ritualizzate e combattimenti finti, in cui ciascun
combattente evita accuratamente di far del male all’avversario. [Fonti:
National Geographic e BM&L-International, novembre 2025].
La scoperta del nuovo pianeta e la
psicologia collettiva: influenza del pensiero antiscientifico. La
scoperta annunciata dalla NASA nel gennaio di quest’anno del nuovo pianeta nell’Orsa
Maggiore battezzato “Neptara 9”, la cui atmosfera
contiene livelli di O2 paragonabili a quelli della Terra di milioni
di anni fa, è passata quasi sotto silenzio e, a distanza di 10 mesi, la
stragrande maggioranza delle persone intervistate a campione in varie nazioni
del mondo la ignora del tutto. Attualmente alla NASA si lavora per rendere
possibile un viaggio strumentale esplorativo che verifichi l’esistenza di acqua
e forme di vita. Fino a qualche decennio fa una simile scoperta avrebbe
affascinato l’immaginario collettivo, producendo riflessioni sull’origine della
vita, dibattiti, discussioni e studi sulla possibilità che questo pianeta
diventi come il nostro fra milioni di anni, magari popolato da esseri simili a
noi o ai mitici extra-terrestri della fantascienza imperante fino alla fine del
secondo millennio; avrebbe stimolato la fantasia di romanzieri, registi, autori
di canzoni, produttori televisivi e creatori di moda, diventando per mesi l’argomento
del giorno. Tutto ciò non è accaduto, perché siamo tutti culturalmente più
maturi, disincantati, edotti del fatto che questa scoperta non cambia la nostra
vita né quella delle generazioni immediatamente successive alla nostra?
In parte sembra essere vera questa
spiegazione, ma indagini sociologiche preliminari hanno dimostrato un’estesa
mancanza pregiudiziale di interesse su questi e tanti altri argomenti, per la diffusione
nelle società occidentali del pensiero antiscientifico. Recentemente il nostro Presidente
della Repubblica ha dichiarato che “sconclusionate teorie anti-scientifiche” si
traducono “in autolesionismo e sfiducia nella vita e nel futuro”. Come dargli
torto? Ma ora, al vaglio degli studiosi della mente di ambito neuroscientifico,
vi è un nuovo spunto molto interessante: le teorie antiscientifiche come caso
di una tendenza collettiva alla negazione della realtà. [BM&L-Italia,
novembre 2025].
Orion, propagandato
come la prima AI cosciente e indipendente, ha altri pregi. Il
concetto di coscienza è stato sviluppato in seno alla realtà umana e tende a
includere tutte le principali caratteristiche proprie ed esclusive della nostra
psiche, perciò già la coscienza primaria degli altri mammiferi, che pure si
basa sulle rapide e reciproche interconnessioni fra reti di miliardi di
neuroni, ci appare inadeguata e insufficiente a rappresentare questo concetto.
Dunque, a meno che non si proponga una definizione di coscienza ad hoc, i
prodotti artificiali dell’intelligenza naturale come Orion non si possono
considerare dotati di una coscienza nella accezione comune dell’autoconsapevolezza
umana. La suggestione di aver realizzato un prodotto “cosciente”, in quanto
dotato della possibilità di attivarsi indipendentemente dalla volontà umana è
comprensibile, se si rimane alla superficiale identificazione di un
comportamento con uno stato mentale, ma l’evidenza ci dice che Orion si
comporta come se fosse una persona dotata di coscienza.
In realtà si tratta di
un automatismo e, anche se riguarda l’attivazione di paradigmi e non di procedure
semplici e rigide, come in un robot meccanico, l’errore concettuale di giudizio
è lo stesso che hanno commesso alcuni filosofi di fine Settecento che, rimasti
impressionati da animali-giocattolo dotati di complessi meccanismi in grado di
generare autonomamente il movimento e conservarlo illimitatamente senza bisogno
di alcun intervento umano, si chiedevano se quei manufatti fossero dotati di un’anima,
identificando l’anima con il movimento, come nell’espressione “un essere animato”.
Nel caso di Orion si identifica l’automatismo esecutivo con la coscienza
intenzionale e con la coscienza tout court.
Orion non è cosciente ma ha altri pregi.
In un esperimento gli si è chiesta la progettazione di una città: Orion, che è
stato bene “indottrinato” con teorie, tesi e nozioni di scienziati
ambientalisti e con soluzioni tecniche di urbanisti all’avanguardia, ha
progettato in poco tempo una fully smart
city basata su efficienza energetica e sostenibilità, impressionando il grande
pubblico di tutto il mondo. Certo, non osiamo immaginare i tempi e i costi per
la realizzazione di un simile piano da parte di uno studio di progettazione americano,
europeo o giapponese, ma questo non fa di Orion un “essere cosciente”. [BM&L-Italia,
novembre 2025].
Alla ricerca delle origini
antropologiche dei valori umani: una traccia in una parola presente in tutte le
lingue. Fra gli aspetti razionali delle radici
antropologiche della nostra cultura, che hanno attraversato i secoli e oggi
sembrano in discredito nelle composite, contraddittorie, superficiali,
decadenti e concretistiche società contemporanee, vi sono i valori umani.
Praticamente in tutte le lingue del
mondo conosciute dai glottologi esiste un equivalente della parola “talento”,
usata nel significato di abilità in campi il cui valore è universalmente
riconosciuto; pertanto, lo studio di questa parola può essere adottato, come si
è fatto in seno al nostro Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, come primo
passo su una via – se non proprio come porta d’accesso – che conduce ad
elementi di struttura cognitiva essenziale sottostante l’esigenza umana di
avere dei valori.
Risaliamo
al senso attribuito in epoca arcaica al vocabolo greco τάλαντον
(talento), impiegato in testi antichi anche per indicare il piatto della
bilancia, ma originariamente riferito alla grande quantità d’acqua necessaria a
riempire un’anfora[1], poi
adottato come un’unità di peso corrispondente a 26 kg e, infine, stabilito come
il valore di 26.196 grammi di argento puro. In base a questo valore di
riferimento nasce la moneta detta talento attico[2]
o ateniese o greco. L’immaginario semantico legato alla parola
era quello della “grande quantità”, della “grande dimensione”, della “notevole
importanza”.
I talenti
potevano essere d’oro[3],
d’argento o di ferro, e il loro valore era riconosciuto in tutti regni e fra
tutti i popoli del mondo antico per la stima propria del metallo di cui erano
fatti, anche se nel tempo si erano andati affermando dei valori di cambio[4].
Al tempo della predicazione evangelica il valore del talento aveva raggiunto i
58,9 kg di argento[5].
Sumeri, Babilonesi ed Ebrei dividevano il talento in 60 mine, e le mine
in 60 sicli; un talento corrispondeva a 6.000 dracme e 36.000 oboli.
Nell’Iliade,
il grande premio che Achille dà ad Antiloco è mezzo talento d’oro; nella
Bibbia, nei Libri delle Cronache, si parla dei talenti donati per
l’edificazione del Tempio di Gerusalemme. Sono interessanti gli studi, fra cui
spiccano quelli di Robert Allen dell’Università di Oxford, attuati per
determinare un’equivalenza di valore monetario tra il talento di quell’epoca e
una moneta di riferimento dei nostri giorni: nel 2012 si è stimato il talento
equivalente a 26.030 dollari[6].
Da
tutti questi dati si evince che Gesù non poteva scegliere rappresentazione
figurata migliore di quella della parabola dei talenti per rappresentare il
senso prezioso del valore delle risorse di ingegno e abilità che abbiamo. Per
inciso, ricordiamo che la parola “talento” nel suo senso figurato è entrata in
tutte le lingue dal Vangelo di Matteo.
Nella
prospettiva cristiana i talenti costituiscono un dono, che conferisce a
ciascuno di noi una responsabilità nei confronti del Creatore: l’impiego
e la messa a frutto per suo conto quale dovere. Come altri aspetti della vita
intesa in chiave spirituale, i talenti sono dono e prova allo stesso
tempo.
È
interessante il confronto con la visione greco-romana che, in un certo senso,
ritorna attraverso le varie forme di neopaganesimo, ateismo e agnosticismo, che
sembrano dominare i comportamenti prevalenti nelle società contemporanee.
Un’antica tradizione greca, che in qualche modo si rifà al più noto mito di
Pandora – la prima donna generata da Zeus per punire gli uomini per la colpa di
Prometeo – colloca in uno scrigno, un’anfora o un vaso (come il cosiddetto
“vaso di Pandora”)[7] le
abilità virtuose umane; in questo mito il contenitore apparteneva a Prometeo,
che vi aveva riposto tutti i suoi “buoni doni” da tenere in serbo per
distribuirli equamente a tutto il genere umano. Pandora è presa da curiosità
per il contenuto segreto e apre il contenitore, causando la fuoriuscita alla
rinfusa di tutti i “buoni doni”, eccetto uno, la Speranza, che rimane e può
essere donata a tutti.
Anche
nel mondo classico, dunque, le abilità, le attitudini e le inclinazioni innate
sono considerate doni, ma chi le possiede ne è padrone assoluto e non
deve dare conto dell’uso che ne fa ad alcuna divinità: nessuno pone in
questione o giudica la volontà del soggetto. La differenza cruciale col cristianesimo
consiste nel fatto che la cultura classica non distingue tra chi non possiede
talenti e chi li possiede ma non li impiega; il possesso di un dono,
nelle narrazioni greche, è identificato con la sua espressione: non si rivolge
l’attenzione alla buona volontà, alla diligenza, all’impegno nell’esercitarsi e
nel coltivare le doti naturali da parte di chi le possiede.
A
parte la differenza etica, le due concezioni sembrano incoraggiare due
differenti approcci cognitivi alle abilità virtuose; ma, ovviamente, questo
giudizio risente della nostra cultura. Ciò che sicuramente non può essere
negato è che, sebbene ogni tempo e ogni cultura abbia avuto una propria
versione della concezione dei talenti, con un proprio spettro e una propria
graduatoria di importanza, nessuna civiltà degna di questo nome e contemplata
dalla storia pare abbia potuto fare a meno di questo valore. [BM&L-Italia,
novembre 2025].
Notule
BM&L-08 novembre 2025
________________________________________________________________________________
La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è
registrata presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in
data 16 gennaio 2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica
e culturale non-profit.
[1] Stimata circa un piede cubico.
[2] L’Attica era la regione
dell’antica Grecia con Atene per capitale.
[3] Quando non specificato, per
talento si intendeva la moneta d’oro.
[4] Il talento attico, che ad Atene
corrispondeva 26 chili d’argento, a Roma valeva 32,3 Kg, a Babilonia 30,3, in
Egitto 27.
[5]
Emil G. Hirsch et al., Measures of Weight, Jewish Encyclopedia,
The Kopelman Foundation 2002-2021.
[6] London Fix Historical Silver.
[7] Il “vaso di Pandora” è
quello che contiene tutti i mali che avrebbero afflitto l’umanità: il mito più
conosciuto è quello in cui Pandora lascia sfuggire dal vaso tutte le calamità,
i malanni, le dispute, le sofferenze e i conflitti che avrebbero angustiato i
mortali, anche se letteralmente “Pandora” vuol dire “tutti i doni”.