BM&L-ITALIA,
FIRENZE 2010
Le basi e
l’uso degli effetti benefici di umorismo e risate
PREMESSA. “Aristotele considerava la risata
un esercizio fisico prezioso per la salute e Immanuel Kant riteneva che le tre
strategie naturali, adottate dagli esseri umani per far fronte al disturbo
derivante dai problemi della vita quotidiana, fossero ridere, sperare e dormire”. Con queste parole Giuseppe
Perrella, presidente della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia,
nel maggio 2009 ha introdotto una relazione[1]
che ha ripercorso le principali tappe dello studio scientifico della risata e
dell’umorismo, a partire da osservazioni risalenti ai primi decenni del
Novecento sul rilassamento muscolare
indotto dal riso, fino ai più recenti studi condotti con metodiche di neuroimaging, ed ha poi esaminato e
discusso le più rilevanti esperienze di impiego a scopo terapeutico della
capacità umana di ridere e sorridere.
La
relazione ha costituito la base del presente scritto, al quale si è cercato di
dare una forma di più facile lettura rispetto alla trascrizione integrale della
registrazione che includeva non pochi riferimenti tecnici e digressioni
specialistiche. Inoltre, lo stesso autore ha riveduto il testo così
sintetizzato, apportando qualche modifica ed alcune aggiunte aggiornate al mese
di gennaio 2010.
(Isabella
Floriani, Roma, 7 gennaio 2010).
INTRODUZIONE. Il sorriso e la risata,
nell’esperienza comune, sono considerati due gradi diversi di espressione di
uno stesso genere di stati affettivi, forse perché quando capita di sentire qualcosa
di divertente o di assistere ad una scena comica, accade che si sorrida o si
rida. E’ tuttavia altrettanto risaputo che si possa sorridere e ridere per i
più svariati motivi e, soprattutto, che ciò possa accadere per evocazione, come
in un riflesso involontario, o per effetto di intenzione, come nel sorriso
sardonico o nello sghignazzare di scherno. La definizione del verbo ridere, nella tradizione lessicografica
italiana, rappresenta bene la manifestazione neuromotoria: contrarre i muscoli facciali, socchiudendo la bocca, emettendo scrosci
di suoni vocali per allegrezza o malignità (Sansoni); oppure: contrarre i muscoli facciali ed emettere
dalla gola un suono argentino o gorgogliante caratteristico, in segno di
allegrezza, di compiacimento, o per dimostrare sprezzo, piacere maligno, ironia
e simili (Palazzi). Tuttavia una tale descrizione, che illustra il
referente di esperienza corrispondente al valore semantico del lemma, è
inadeguata per identificare l’oggetto di uno studio scientifico. A tale scopo
si dovrebbe, ad esempio, sostituire alla generica indicazione di una
contrazione dei muscoli del viso, un’analisi dettagliata della fisiologia
muscolare di tutti i segmenti del corpo che partecipano alla manifestazione
affettivo-emotiva, e provvedere allo studio strumentale dell’encefalo durante
l’espressione delle principali versioni di sorrisi e risate che sembrano essere
comuni a tutti gli esseri umani.
Certamente
una descrizione degli schemi di contrazione dei muscoli mimici e della
fisiologia del riso, basata sugli studi del passato[2]
ed arricchita da nuove osservazioni, fornirebbe una grande quantità di
curiosità morfologiche - come quelle relative al numero di muscoli che si
contraggono e al grado del loro impegno nelle varie espressioni - e di informazioni
scientificamente rilevanti, come quelle relative ai rapporti con la fisiologia
respiratoria, cardiovascolare, immunitaria, endocrina e neuropsichica[3].
Probabilmente un tale tipo di studi fornirebbe risultati utili ad altre branche
della ricerca fisiologica e potrebbe dare un risposta in termini cellulari e
molecolari alla domanda sul significato evoluzionistico del riso e delle altre
manifestazioni mimico-affettive correlate, andando ben oltre il generico valore
positivo che si riconosce loro già sulla base delle nozioni di cui attualmente
si dispone. In questa prospettiva la nostra società scientifica vuole
incoraggiare la ricerca, sperando che la frammentarietà e l’occasionalità del
presente ceda presto il posto alla sistematicità di progetti organici elaborati
dalle maggiori scuole neuroscientifiche.
CENNI STORICI. Le prime osservazioni condotte con
rigore scientifico risalgono agli anni Trenta del Novecento e sono
caratterizzate dal concentrarsi dell’attenzione dei ricercatori sull’effetto di
rilassamento muscolare indotto dalla risata. Secondo questi studi
pionieristici, la riduzione del tono dei muscoli esaminati poteva protrarsi
fino a 45 minuti dopo il cessare della manifestazione di divertimento e faceva
supporre l’innesco di processi in grado di migliorare lo stato emotivo di base.
Lo
studio delle emozioni in quegli anni risentiva delle tesi del fisiologo danese
Carl Lange[4]
e del padre della psicologia americana, William James, che attribuivano ai
processi nervosi periferici un ruolo centrale nella genesi dei vari stati
affettivo-emotivi. James in “What is an Emotion?” (1884), un saggio basato su
introspezione ed osservazione, sostenne che “le emozioni sono percezioni
viscerali originate nel corpo, dove generano riflessi nei vari distretti
dell’organismo: quando questi raggiungono la nostra mente, vi costruiamo su una
storia”[5].
Si comprende come in una tale visione, che riteneva la periferia corporea e
neurovegetativa sede di origine degli stati emotivi, assumesse un rilievo
particolare l’idea di una reazione
psicomotoria come la risata, quale meccanismo in grado di modificare uno stato mentale, confermando così la tesi
secondo cui la natura della componente psichica delle emozioni fosse quella di epifenomeno
di processi periferici. Allo stesso modo gli epigoni di Lange - i quali
ritenevano che non si piange perché si è tristi ma che l’umore triste nasce
quando il corpo sta per produrre le lacrime - sostenendo la derivazione
neuromuscolare di alcune emozioni, potevano facilmente attribuire all’evocazione
del riso la capacità di mutare l’umore di una persona.
Nei
decenni successivi prevalse la visione di Wilder Penfield che, stimolando con
un elettrodo la corteccia limbica al di sopra dell’amigdala in soggetti svegli
scalottati, provocò gioia, rabbia, commozione e cordoglio, dimostrando l’origine cerebrale di tali stati
affettivo-emotivi. Il risultato di questa prova sperimentale ebbe subito
l’unanime riconoscimento della comunità scientifica, anche perché faceva parte
di quegli studi che avevano portato a definire con precisione le mappe
corticali del controllo sensitivo e motorio di tutto il corpo[6],
contribuendo a determinare un cambiamento culturale di portata epocale nel
campo della fisiologia del sistema nervoso. Conseguenza non voluta di questa
visione cerebrocentrica, fu
l’affermarsi della tendenza a trascurare la periferia nervosa, relegandola
spesso al ruolo di semplice apparato recettivo ed esecutivo di funzioni
completamente ascritte all’attività encefalica.
Oggi,
come vedremo in seguito, abbiamo una visione della realtà mente/corpo meno
ingenua e schematica dei nostri padri nobili, e studiamo i complessi feedbacks e i feedforwards che esistono fra il centro e la periferia,
ritenendo interessante l’interferenza con questi patterns funzionali da parte dell’evocazione di un evento
fisiologico come la risata, consistente in una risposta neuromotoria tonica o
tonico-clonica, in grado di generare rilassamento muscolare.
E’
interessante notare che, nello stesso periodo in cui fu descritto per la prima
volta il rilassamento muscolare indotto dalla risata, si ebbe un’altra
osservazione pionieristica che ha tracciato un solco nel quale prosegue la
ricerca attuale: nel 1928 il medico newyorkese James J. Walsh notò che il riso
riduceva il dolore causato dall’intervento chirurgico.
LA RICERCA. Si può dire che gran parte delle
ricerche sviluppate nella seconda metà del XX secolo e in questo primo decennio
del XXI, sul ruolo “terapeutico” e sul significato fisiologico del riso e degli
stati mentali a questo collegabili, sono riconducibili a due filoni principali:
1) gli studi fondati su un’impostazione che ha considerato l’azione di
rilassamento muscolare come parte di un quadro funzionale opposto a quello
tipico dell’ansia, della paura e dell’allarme, con i suoi caratteristici patterns neurofisiologici e
neuroendocrini; 2) i lavori che hanno indagato gli effetti antidolorifici del
riso, del sorriso e dell’umorismo.
A
questi due orientamenti tradizionali, negli anni recenti si è aggiunta la
ricerca volta a definire le basi morfo-funzionali delle facoltà psichiche che
ci consentono di cogliere il senso umoristico di qualcosa che percepiamo, e di
reagire con manifestazioni di gradimento. In particolare, lo studio del
cervello mediante metodiche basate sulla risonanza magnetica funzionale (fMRI,
da functional Magnetic Resonance Imaging),
sta cercando di definire la rete di aree implicate nell’apprezzamento di motti
di spirito, barzellette, storie e circostanze divertenti.
Al
filone che studia il ruolo fisiologico del ridere, ossia che assume come punto
di partenza la manifestazione neuromotoria e non lo stato mentale, appartengono
le ricerche che hanno valutato l’effetto della mimica facciale sulla
propensione al riso. L’atteggiamento del volto, dipendente dall’azione dei rami
del VII paio dei nervi cranici sui muscoli mimici facciali, sembra poter
influenzare a ritroso l’entità della manifestazione che esprime divertimento.
In proposito si citano spesso le ricerche condotte oltre tre decadi fa dal
gruppo di Fritz Strack dell’Università di Würzburg (Germania); in particolare
si fa riferimento ad un curioso esperimento condotto con due gruppi di
volontari nel 1988: si chiese al primo gruppo di esercitarsi a tenere una penna
con i denti in modo da simulare un sorriso, e al secondo gruppo di reggerla con
le labbra sporgenti in un atteggiamento simile a un’espressione di dispiacere o
delusione. Successivamente, quando a tutti i partecipanti all’esperimento
furono presentati dei cartoni animati esilaranti, coloro che erano stati
costretti a simulare il sorriso manifestarono il divertimento con maggiore
esuberanza ed intensità dei volontari che avevano tenuto la penna con una sorta
di “muso imbronciato”.
Questo
genere di studi, che prosegue con risultati non dissimili da quelli ottenuti da
Strack, richiama l’attenzione sull’influenza che le espressioni e
l’atteggiamento possono avere sulle emozioni, e suffraga l’idea che il semplice
atto del ridere, indipendentemente dallo stato mentale che elabora comicità ed
umorismo, possa produrre benefici effetti fisiologici e psicologici. Su tale
assunto si è basato lo “yoga della risata”, ideato dal medico Madan Kataria che
ha fondato il celebre Laughter yoga
movement, noto per aver istituito in tutto il mondo il “giorno della risata”[7].
Questa forma di terapia comportamentale prevede un programma di esercizi di
gruppo che simulano le manifestazioni mimiche, posturali e motorie del riso, e
sfrutta l’effetto di innesco dato da un meccanismo di contagio simile a quello
dello sbadiglio, probabilmente mediato dal sistema dei neuroni specchio.
La
maggior parte dei ricercatori rimane scettica sulla portata degli effetti
fisiologici della risata simulata in
quanto tale, e la psichiatra dell’Università di Tübingen Barbara Wild, che ha
studiato il metodo di Kataria, ritiene che le sensazioni di benessere riferite
dai partecipanti ai gruppi di esercitazione siano principalmente da ascriversi
al complesso di stimoli derivanti dall’esperienza di gruppo. Si deve infatti
notare che vari aspetti della predisposizione psicologica, della situazione di
contesto e dell’interazione con l’istruttore e con i partecipanti,
difficilmente possono ritenersi irrilevanti. Basti pensare all’eccitazione
indotta dalla presenza di persone di entrambi i sessi che si incontrano per
ridere insieme, alle condizioni di reale divertimento che spesso deriva
dall’aspetto buffo assunto da alcuni nell’esecuzione degli esercizi, o agli
effetti evocativi indotti dall’ascolto di un modo insolito e poco contenuto di
ridere, come quello a raffiche di intensità crescente e quasi parossistica che
normalmente si presentano nei bambini, o a vocalizzi chiocci e a suoni vocali
improvvisi e curiosi dovuti all’inspirazione forzata dalla riduzione di apporto
di ossigeno conseguente a un clono risorio protratto.
Lo
studio della fisiologia dei partecipanti alle sessioni di questo yoga speciale non potrebbe perciò
fornire dati puri sull’effetto esclusivo del pattern motorio funzionale
della risata sulla mente e sul corpo[8].
Ma, accantonata la pretesa un po’ datata di scindere le manifestazioni
neuromotorie della risata dallo stato funzionale del cervello, un tipo di
ricerca che appare più interessante è quella che valuta le conseguenze in
termini neuroendocrinologici e immunologici di esperienze che provocano il
riso.
E’
stato studiato l’effetto della visione di films
comici sulla concentrazione plasmatica di ormoni
dello stress: un netto crollo del tasso di cortisolo circolante è stato costantemente riscontrato, accanto a
modifiche irrilevanti delle altre molecole saggiate, come le catecolamine. Il
cortisolo è attualmente ritenuto il principale dei mediatori delle risposte di
scompenso omeostatico che rientrano nella definizione fisiologica di stress[9],
e una delle molecole-chiave nell’induzione della depressione e di altri
disturbi conseguenti agli effetti cerbrolesivi innescati dal circuito locus
coeruleus-amigdala (CRH)[10].
E’ anche noto che livelli cronicamente elevati di cortisolo determinano un effetto immunosoppressivo. Seguendo questa traccia in una
chiave di lettura evoluzionistica, si è ipotizzato che la risata abbia, insieme
con gli altri affetti positivi, un
fine protettivo per la vita dell’organismo: riduce la tossicità da stress sia nei suoi effetti diretti sul
cervello (perdita di neuroni dell’ippocampo e di altre aree sensibili) sia nei
suoi effetti indiretti, come quelli immunosoppressivi.
In
accordo con questa ipotesi, in vari esperimenti il ridere ha determinato un
aumento dei linfociti NK (natural killer) nella saliva di soggetti volontari sani.
Gli
effetti di interesse immunologico non si limitano all’aumento della protezione
cellulo-mediata dell’organismo e, presumibilmente, studi futuri amplieranno
molto lo spettro delle modificazioni conosciute indotte dal buon umore. Un
risultato molto interessante in campo allergologico è stato ottenuto nel 2007
da Hajime Kimata e colleghi del Moriguchi-Keijinkai Hospital (Giappone). La melatonina, ormone della ghiandola pineale che regola i cicli
veglia-sonno, è frequentemente alterata negli affetti da dermatite atopica[11],
malattia della quale soffrivano i 48 lattanti dell’esperimento di Kimata, il
cui campione era costituito, oltre che dai piccoli, dalle loro madri in
allattamento. I ricercatori misurarono i livelli di melatonina nel latte delle
donne prima e dopo averle fatte assistere ad un video di una comica fra le più
esilaranti di Charlie Chaplin, poi confrontarono i rilievi con quelli eseguiti
prima e dopo che le donne avevano assistito alle previsioni del tempo. Risultò
che la comica di Charlot, accompagnata da numerose risate, aveva notevolmente
innalzato la concentrazione di melatonina nel latte materno, mentre le
previsioni del tempo non avevano influito sull’ormone epifisario. Ma,
soprattutto, emerse che il latte delle donne che avevano riso di divertimento,
era in grado di ridurre la risposta
allergica dei lattanti
al latex e agli acari della polvere
di casa. A due anni di distanza, i risultati di questo lavoro non hanno avuto
smentita, e sono in corso di svolgimento altre ricerche per verificare
l’efficacia anti-allergica delle risate delle madri-nutrici per i piccoli che
presentino uno o più elementi della classica triade atopica.
Gli
esperimenti basati sulla percezione visiva ed uditiva di stimoli in grado di
produrre il riso, sono stati impiegati in questi anni anche per verificare le
proprietà analgesiche del buon umore, che erano state postulate da Walsh fin
dal 1928[12].
Si
cita spesso uno studio del 1996 condotto su pazienti sottoposti a chirurgia
ortopedica ed affetti da intensi dolori post-operatori: i volontari che
assistevano a rappresentazioni comiche necessitavano di dosi minori di farmaci antidolorifici, rispetto al gruppo di coloro che assistevano a
recitazioni di tipo drammatico e a quello dei pazienti ai quali non veniva
proposto alcun tipo di spettacolo[13].
Willibald
Ruch e le sue allieve Karen Zweyer e Barbara Welker, in uno studio del 2004,
hanno provato a verificare se è necessaria la risata o è sufficiente
l’esperienza del divertimento per ridurre la percezione del dolore. I ricercatori
chiesero a 56 donne di immergere tre volte la mano in un’acqua ghiacciata, la
cui temperatura era in grado di indurre stimolazione nocicettiva: prima,
immediatamente dopo, e 20 minuti dopo la visione di un divertente filmato di
soli sette minuti. Le donne erano state divise in tre gruppi: le appartenenti
al primo gruppo erano state istruite ad entrare in uno stato di buon umore
senza ridere né sorridere; le donne del secondo gruppo potevano dare libero
sfogo all’allegria e si chiedeva loro di ridere molto; infine, alle volontarie
rimanenti, era stato chiesto di improvvisare commenti umoristici orali durante
la visione del film.
Come
previsto, il filmato migliorò la tolleranza del dolore in tutte le donne: era
necessario un tempo di latenza più lungo prima che percepissero il dolore, e la
resistenza era aumentata, ossia potevano trattenere la mano dolente in
immersione per un tempo maggiore. Queste modificazioni nell’elaborazione delle
sensazioni nocicettive perduravano anche a distanza di 20 minuti.
Ma
la risposta al quesito principale dell’esperimento, ci appare ancora più
interessante: per ottenere l’effetto di soppressione del dolore non era
necessaria la risata, ma era indispensabile la manifestazione neuromotoria del sorriso. Infatti, le partecipanti alle quali era stato chiesto di
reprimere riso e sorriso, ed erano riuscite a farlo, avevano sofferto più di
tutte, mentre quelle di questo gruppo che non erano riuscite a trattenere i
sorrisi, avevano manifestato una tolleranza accostabile a quella di coloro che
avevano dato libero sfogo alle risate[14].
Gli
esperimenti di Ruch, Zweyer e Welker appartengono ad una tipologia di studi che
tende ad accertare, come si fa in neurofisiologia, aspetti di una funzione
presenti in tutti gli individui della specie indagata[15],
ma sappiamo che un tratto molto importante nella realtà umana attiene alle
differenze determinate dalle caratteristiche psicologiche delle persone.
Gli
studi condotti secondo le teorie e i metodi della psicologia, anche se non
possono offrire il grado di certezza sperimentale che caratterizza i risultati
ottenuti seguendo criteri neurofisiologici, presentano un rilievo particolare
in quanto la loro analisi si compie ad un livello meno elementare ed esplora
caratteristiche di personalità che possono influire sulle reazioni
psico-fisiche alle esperienze.
La
tendenza ad essere seriosi, ossia a non assumere facilmente l’atteggiamento
mentale di chi è disposto a cogliere gli aspetti umoristici della realtà,
sembra non aiuti a sopportare il dolore. Misurando la seriosità con la scala STCI, è risultato che i volontari
con i punteggi più bassi, e quindi presumibilmente più tendenti alla
spensieratezza, erano quelli dal sorriso e dalle risate più spontanee ed
autentiche, dalle quali ricavavano una maggiore riduzione del dolore percepito
durante le prove. Può destare qualche perplessità l’interpretazione di questo
risultato fornita dagli autori dello studio: le persone meno sobrie e
compassate -secondo loro- non prenderebbero sul serio nemmeno il dolore. Appare
invece più che fondata la loro proposta di considerare il grado di seriosità e
di giocosità della persona, quale indice del livello presumibile di efficacia
di un intervento terapeutico basato su umorismo e comicità[16].
Gli
studi psicologici hanno esplorato anche altri effetti positivi dell’essere
allegri e divertenti e, con ciò, propensi a cogliere aspetti risibili della
realtà e a trasmettere buon umore alle persone con le quali si entra in
rapporto. Tale disposizione accresce la possibilità di acquisire nuovi amici e
di nutrire i rapporti già esistenti e, accompagnandosi di frequente ad uno
stile relazionale più aperto e diretto alle emozioni e ai sentimenti, facilita
lo stabilirsi di legami stretti in tempi brevi e, in un’ottica di psicologia
collettiva, si può dire che favorisca il sostegno sociale.
Nel
2006, gli psicologi Eric R. Bressler del Westfield State College e Sigal
Balshine della McMaster University in Ontario, nei loro esperimenti hanno
rilevato che le donne avevano una maggiore propensione a ritenere un uomo visto
in fotografia un compagno desiderabile per un rapporto, se l’immagine era
accompagnata da una citazione divertente attribuita all’uomo in questione[17].
Altro dato di rilievo è che le donne partecipanti allo studio preferivano gli uomini
divertenti agli altri, anche a dispetto del fatto che li stimassero meno
intelligenti e meno affidabili della media[18].
In
questo lavoro si riporta che gli uomini non mostravano preferenze per le donne
spiritose, ma bisogna notare che in molti studi, nella scelta del partner, sia gli uomini che le donne
hanno considerato il senso dell’umorismo come una qualità. D’altra parte,
sembra che gli uomini gradiscano particolarmente le donne che ridono per i loro
motti di spirito[19].
In
proposito, ricordiamo il curioso risultato di uno studio non recente (1990)
sulle conversazioni spontanee intercorrenti fra un uomo e una donna[20]:
la quantità delle risate della donna era un buon indicatore sia dell’interesse
di questa nell’incontrare l’uomo, sia dell’attrazione sessuale in lui suscitata[21].
Al contrario, le risate dell’uomo non apparivano in rapporto con interesse ed
attrazione di nessuno dei due per l’altro.
Un
riferimento bibliografico obbligato, quando si tratti degli studi volti a
valutare gli effetti dell’umorismo su uno stato d’animo indotto dalle
circostanze, è il lavoro condotto da Nancy A. Yovetic[22]
con gli psicologi J. Alexander Dale e Mary A. Hudak dell’Allegheny College nel
1990. In questo studio, ai 53 studenti di college
che costituivano il campione dell’esperimento, fu annunciato che entro 12
minuti avrebbero ricevuto una scossa elettrica: l’annuncio aveva lo scopo di
indurre in loro una qualche forma di attesa ansiosa o di preoccupazione. Nel
frattempo, i tre gruppi in cui erano stati suddivisi i volontari furono
sottoposti a tre diverse esperienze: il primo gruppo ascoltò un nastro dai
contenuti divertenti, il secondo poté ascoltare un discorso privo di humor e al terzo non fu dato nulla da
ascoltare. Naturalmente la temuta scarica elettrica non fu erogata e fu
valutato lo stato d’animo dei partecipanti, confrontando poi l’esito dei tre
gruppi. Seguendo quanto riferito sulla base della percezione soggettiva, i
membri del primo gruppo risultarono molto meno ansiosi di quelli degli altri
due, confermando un generale effetto anti-ansia dell’umorismo; inoltre, coloro
che avevano fatto registrare i punteggi più alti nell’area del senso umoristico
in una precedente valutazione di personalità, avevano presentato in assoluto i
livelli più bassi di tensione.
Da
questo studio, come da altri simili che sono seguiti nel tempo, si deduce che
l’umorismo può avere un effetto di riduzione dell’attivazione dei circuiti che
mediano l’espressione di emozioni negative. In altre parole, un effetto ansiolitico senza l’azione sedativa dei farmaci che si impiegano a
questo scopo[23]. Un altro
aspetto è che le persone predisposte ottengono i maggiori benefici.
Ma,
in che cosa consiste questa predisposizione? Come possiamo distinguerla dalla
reazione a qualcosa di divertente? Per rispondere a questi interrogativi,
qualche anno dopo lo studio di Yovetic e colleghi, Willibald Ruch creò la già
citata STCI (State-Trait Cheerfulness
Inventory). Questa scala consente di distinguere l’umore temporaneo, come
quello prodotto dall’ascolto di una barzelletta (state), da una caratteristica della persona o tratto (trait)[24],
ed assegna un alto punteggio a chi facilmente assume un umore allegro ed è
pronto al riso. Si ritiene che questa caratteristica sia rilevante per la
personalità, in quanto le persone con un cheerful
trait sembra che presentino una stabilità maggiore della media, tanto che
secondo Ruch l’umorismo “rinforza la psiche”[25].
Nel
1966 questo autore, con il medico Claus-Udo Wancke e i suoi collaboratori di
Dusseldorf, misurò il tratto in 68 persone e rilevò che, parlare di proverbi
dai contenuti negativi, induceva malumore nei volontari dallo stile composto e
compassato, mentre non aveva effetti negativi sulle persone più gioviali.
Nel
1999 Ruch e colleghi valutarono 72 studenti mediante la STCI e poi chiesero
loro di rispondere a questionari e fare dei disegni, perché si trattenessero
nelle tre stanze in cui erano stati ripartiti. Il vero obiettivo
dell’esperimento era lo studio dell’effetto dell’ambiente sui volontari. La
prima stanza era stata allestita allo scopo di creare un ambiente allegro:
grandi finestre, pareti gialle, posters
con rappresentazioni divertenti e drappi dai colori vivaci. La seconda stanza,
o “stanza depressiva”, come era stata ribattezzata, aveva le pareti tinte di
nero ed era illuminata solo da una lampadina[26].
La terza era stata concepita come un ambiente “serio” di lavoro, con
strumentazioni scientifiche, libri, fra cui manuali didattici, e posters per le presentazioni degli studi
sperimentali ai convegni.
Come
ci si poteva attendere, l’ambiente deprimente ebbe il massimo effetto sugli
studenti poco allegri, determinando in loro un notevole peggioramento
dell’umore, mentre non sembrò influenzare quelli caratterizzati da un tratto di
personalità gioviale e tendente all’umorismo.
Ma
passiamo allo studio delle basi cognitive della capacità di cogliere aspetti
divertenti della realtà.
La
percezione del grottesco in una
situazione o del comico in un
comportamento, avviene con immediatezza e sembra rivelare una capacità che poco
si presta alla scomposizione in parti, invece la comprensione del senso
umoristico di una breve storia o di un gioco di parole, consente un’analisi
dettagliata degli elementi necessari e sufficienti a generare il riso,
costituendo un oggetto di studio che, dal celebre saggio di Freud[27]
in poi, ha una sua tradizione nell’ambito della psicologia. La capacità di
afferrare il senso e cogliere l’aspetto divertente di un motto di spirito,
richiede dei rapidi processi mentali dei quali si indaga il fondamento neurobiologico
nell’attività di reti neuroniche che da poco tempo si è cominciato a
localizzare. Le difficoltà che si incontrano in questo campo non sono tanto
diverse da quelle che affrontano i ricercatori che studiano le basi di altre
attività cognitive e psichiche in generale e, dunque, in questo come in altri
casi, si deve tener conto che la logica della ripartizione funzionale del
sistema nervoso non segue le categorie culturali. Non è perciò lecito
attendersi che lo studio fMRI durante l’ascolto di una battuta spiritosa basata
su un paradosso, evidenzi una sorta di “area delle incongruenze”, e
nell’ascolto di una storiella che gioca su un doppio senso accenda
parallelamente due aree semantiche diverse[28].
Inoltre, le numerose classificazioni[29]
di tipo psicologico, logico, artistico e di altro genere, non possono essere di
grande aiuto per i ricercatori, allo stato attuale delle conoscenze di neurofisiologia
dei sistemi e per i mezzi di indagine di cui si dispone.
L’opinione
della maggior parte dei ricercatori è che il senso dell’umorismo ha il suo
fondamento cerebrale in una rete di regioni interconnesse che cooperano per
creare questa speciale facoltà. Molti studi sono stati condotti sulla base
dell’ipotesi che la stazione principale in questa elaborazione multipla in
parallelo sia la corteccia prefrontale. Danni a questa regione, infatti,
spesso compromettono gravemente la capacità di afferrare il senso e reagire
emotivamente ai motti di spirito. Alcuni studi hanno rilevato che maggiore è il
divertimento, maggiore è l’attivazione di questa parte della neocorteccia.
Altri
studi hanno invece concentrato l’attenzione sul ruolo dell’amigdala, complesso nucleare considerato spesso un “generatore di
emozioni” e noto soprattutto per la mediazione della paura e di altre risposte
emotive legate all’ansia e alla fuga. Della rete di aree sembrano far parte anche il nucleo accumbens e tutte le principali stazioni di elaborazione del sistema a ricompensa cerebrale, ma sull’importanza relativa di ciascuno di
questi aggregati di neuroni non sono stati rilevati risultati concordanti.
Nel
2005, uno studio condotto da Allan L. Reiss e colleghi della Stanford
University School of Medicine, ha provato a spiegare le apparenti incongruenze
fra gli esiti delle diverse ricerche suggerendo che le regioni del cervello
attivate da una barzelletta o da un cartone animato divertente, dipendono dalla
personalità dell’individuo[30].
Reiss
e collaboratori hanno infatti rilevato quadri funzionali diversi in rapporto al
profilo di personalità. Alla vista di cartoni animati divertenti, le persone estroverse attivano in preferenza la corteccia
prefrontale e la
vicina corteccia orbitofrontale; quelle introverse, invece, attivano l’amigdala e la parte frontale del lobo temporale.
Secondo
Reiss e colleghi le aree attive nella percezione del senso umoristico di uno
stimolo riflettono il piacere provato nel corso dell’esperienza e, dunque, le
emozioni piacevoli sarebbero originate in aree diverse del cervello negli
introversi e negli estroversi.
Nel
2008 Wolfgang Grodd con i suoi collaboratori dell’Università di Tübingen, in
Germania, dopo aver valutato mediante la STCI la propensione all’allegria e il
senso dell’umorismo di un gruppo di volontari, ne ha studiato l’attivazione
corticale durante la visione di cartoni animati di Gary Larson. Le “personalità
allegre”, secondo la definizione della STCI, presentavano marcata attività
nelle aree laterali della corteccia cerebrale. Una delle regioni
maggiormente interessate dall’attivazione corrispondeva al lobulo parietale inferiore, un distretto corticale che si
ritiene sia implicato nel riconoscimento delle incongruità, un’abilità
necessaria per l’apprezzamento dei contenuti umoristici. I ricercatori tedeschi
hanno sostenuto che traumi commotivi -e perciò inapparenti- di questa porzione
della corteccia parietale potrebbero essere all’origine della facile
disposizione al riso e all’apprezzamento delle ambiguità che caratterizzano
alcuni[31].
Come
si evince da questi dati, sulla localizzazione dei processi alla base dell’umorismo
si sa ancora poco, tuttavia è certo il valore salutare del riso e del
divertimento connesso con l’apprezzamento di ogni tipo di spunto umoristico che
è stato sottoposto a verifica sperimentale. Su questa base, come si è accennato
in precedenza, sono stati sviluppati sistemi di terapia, fra i quali spicca il
metodo elaborato dallo psicologo Paul McGhee, ex-ricercatore in questo campo ed
attuale presidente della Laughter Remedy in Wilmington. Il training, reso popolare anche come corso teorico-pratico per
acquisire abilità da attore comico e già estesamente impiegato negli USA e in
altri paesi di lingua inglese, è articolato negli otto passi indicati qui di
seguito.
Programma di McGhee
1.
Caratterizza
il tuo senso umoristico.
2.
Diventa
meno serioso e più giocoso nella vita di tutti i giorni.
3.
Lavora
sulla tua risata di pancia.
4.
Migliora
la tua abilità nel raccontare barzellette.
5.
Crea
il tuo umorismo spontaneo.
6.
Trova
aspetti umoristici nella vita quotidiana.
7.
Impara
a ridere di te stesso.
8.
Usa
tutti gli esercizi precedenti per affrontare lo stress.
Il
programma, nelle intenzioni dell’ideatore, vuole fornire uno strumento che
consenta a persone non affette da disturbi psichici di rilievo clinico, di
affrontare condizioni di noia intensa e perdurante, sensazioni di scarsa vena,
affaticamento psicologico da stress,
umore depresso e riduzione dell’interesse generale e dell’iniziativa.
Willibald
Ruch con le sue allieve Heidi Stolz e Sandra Rusch ha condotto uno studio[32]
nel quale 96 persone giudicate in buono stato di salute psichica sono state
sottoposte ad esercizio secondo il programma di Paul McGhee. I risultati,
secondo quanto riferito dallo stesso Ruch, sembra siano stati davvero
lusinghieri per il presidente del Laughter Remedy: i partecipanti si dichiaravano
contenti della propria vita ed apparivano spontaneamente più allegri di prima.
Da notare che questi effetti benefici
sono durati almeno due mesi.
Il
programma in otto passi di McGhee sembra particolarmente efficace, anche se nel
confronto con altri metodi non si possono escludere effetti dovuti alle
caratteristiche del campione, al luogo di esecuzione, al rapporto stabilito con
i volontari ed anche alla suggestione positiva creata dalla buona fama.
Ilona
Papousek e Günter Schulter, psicologi dell’Università di Graz in Austria, hanno
elaborato un loro metodo della durata di tre settimane che insegna alle persone
a diventare più allegre. L’impiego di tale programma per uno studio pubblicato
nel 2008, ha prodotto effetti significativi sull’umore dei partecipanti che,
oltre ad aver ottenuto un miglioramento del tono
affettivo, si sentivano più sereni
ed apparivano più calmi. Un aspetto
non trascurabile è la documentazione dell’efficacia psicosomatica espressa da
un apprezzabile abbassamento dei valori della pressione arteriosa. Si deve tuttavia rilevare che l’effetto
prodotto dall’insegnamento di Papousek e Schulter non è paragonabile a quello
del programma di McGhee in quanto a durata, perché le tre settimane di corso
degli psicologi di Graz lasciavano effetti benefici per un periodo di tempo più
limitato che, in alcuni casi, non superava i due giorni, a fronte dei due mesi
ed oltre del perdurare dello stato mentale indotto dalle due settimane di
esercizio ideato dal presidente dell’associazione di Wilmington.
Proprio
sulla base di questa efficacia è stata avviata una sperimentazione terapeutica
del metodo in otto passi per il trattamento di stati depressivi di rilievo
clinico. Le psichiatre Barbara Wild e Irina Falkenberg, ora alla
Philipps-University di Marburg, in Germania[33],
hanno adottato il programma di McGhee per pazienti ai quali era stata
diagnosticata una depressione di grado
lieve.
E’
importante rilevare, come ha spesso sottolineato la Wild, che l’umorismo era
considerato una sorta di tabù in psicoterapia. L’impiego di un mezzo così poco
tecnico e così lontano da uno studio scientifico della psicopatologia del
paziente, appariva incongruo e poco professionale, quasi si suggerisse ad una
persona che presenta la sofferenza di uno stato depressivo di riderci su, come
se invece di un serio disturbo psichico si trattasse di una piccola noia della
vita quotidiana.
UMORISMO E RISATE
COME TERAPIA.
Probabilmente gli effetti biologici, più dell’efficacia del metodo di McGhee
nel rendere più allegri e sereni individui sani, hanno avuto un ruolo decisivo
nel persuadere molti psichiatri e psicologi clinici ad accettare la
sperimentazione terapeutica in condizioni di sofferenza psichica come quelle
derivanti da disturbi dell’umore di entità non grave[34].
E’ noto che la maggior parte dei casi di depressione ha origine in stati
psichici di cronica attivazione dei sistemi dello stress e il peggioramento della reazione depressiva, che
verosimilmente ha una base biologica nella perdita di neuroni ippocampali e di
altri distretti proencefalici, avviene per effetto di circoli viziosi
alimentati da fattori di tensione, allarme o paura. Per far fronte a questo
problema, in molte tecniche psicoterapeutiche si insegnano modalità e strategie
per gestire i sintomi e gli eventi in grado di innescare e mantenere le
risposte patogene, in tal modo si spera di creare una distanza emotiva che
modifichi la tendenza reattiva[35].
Secondo Barbara Wild, un corso che insegni ad assumere un atteggiamento mentale
volto a cogliere gli aspetti divertenti delle esperienze e ad esprimere il
proprio talento comico può contribuire a raggiungere questo obiettivo.
La
Wild e la Falkenberg hanno istruito i pazienti volontari per il trattamento con
il metodo di McGhee a tessere trame da commedia con i fatti della propria vita
quotidiana, mettendo a frutto le esperienze maturate nella gestione dei corsi
da loro rivolti a persone non affette da disturbi psichici.
Le
due psichiatre di Marburg, per caratterizzare il senso dell’umorismo dei
partecipanti (primo passo della procedura), hanno chiesto loro di raccontare
una storia o una circostanza comica di cui sono stati protagonisti o alla quale
hanno assistito; poi, sempre allo stesso scopo, hanno chiesto di fornire
immagini o cartoni che questi avessero trovato divertenti.
Per
il secondo passo del programma, hanno incoraggiato i volontari a vedere il lato
risibile delle situazioni attraverso un gioco interpretativo di gruppo con
aspetti assurdi e paradossali, e creando o raccogliendo storielle divertenti su
situazioni e circostanze della vita quotidiana. Proseguendo nel training, sono stati eseguiti esercizi
per le altre sei fasi del metodo McGhee esposte in precedenza.
E’
importante notare che sono state imposte delle regole volte ad evitare effetti
negativi indesiderati[36]:
era proibito fare dello spirito sulla base della derisione o del sarcasmo, e
secondo qualsiasi altro atteggiamento sottilmente sadico, come pure era bandito
il suscitare ilarità per disgrazie o danni occorsi ad altri. Naturalmente si
concedeva, come eccezione, all’autoironia di poter essere malevola, soprattutto
quando consisteva in una boutade a
cuor leggero e non esprimeva sentimenti di autoaccusa.
Il
risultato preliminare dello studio di Wild e Falkenberg ha accertato che il
programma di McGhee può avere effetto terapeutico in senso stretto, migliorando
temporaneamente il tono dell’umore dei pazienti depressi. Questo esito
incoraggiante ha indotto le ricercatrici ad avviare un nuovo studio per
valutare la possibilità di ottenere effetti di lungo termine senza l’impiego di
farmaci.
In
proposito si deve ricordare che la “humor therapy”, in associazione con un
trattamento farmacologico standard, era già stata applicata nel disturbo
depressivo. Marc Walter, con i suoi collaboratori dell’Università di Basilea,
in Svizzera, nel 2007 ha riportato risultati positivi nel trattamento combinato
di pazienti anziani depressi: i 10 soggetti che erano stati sottoposti al training volto a stimolare l’allegria e
l’umorismo, erano più sereni e soddisfatti della propria vita delle persone
appartenenti al gruppo di controllo che aveva ricevuto solo farmaci. Gli
effetti positivi non erano limitati alle sensazioni soggettive, ma avevano
investito notevolmente la sfera relazionale, perché gli anziani che avevano
seguito il programma per il buon umore, nei rapporti con gli altri apparivano
più vivaci, immediati, comunicativi, tendenti ad aprirsi nel colloquio e ad
esprimere i propri pensieri.
Questi
studi sono ancora agli inizi e la rigorosa applicazione in terapia psichiatrica
di programmi come quello di McGhee incontra non poche difficoltà. In primo
luogo si deve considerare l’inapplicabilità del metodo in tutte quelle
condizioni in cui risulta impossibile provocare il riso e creare una
comunicazione basata sull’umorismo e la comicità (sindromi autistiche gravi ed
altre forme di disturbi pervasivi dello sviluppo, gravi ritardi dello sviluppo
cognitivo, demenze in fase avanzata, psicosi con disintegrazione di processi
cognitivi e/o affettivi, ecc.), poi si devono contemplare i casi individuali
che includono la mancanza totale di senso dello humor, l’incapacità per motivi cognitivi, emozionali e/o culturali
di seguire con attenzione il significato di una storia fino alla punch line, ossia al compimento che
suscita il riso. A questi casi si devono aggiungere tutti quelli in cui, pur
esistendo i requisiti potenziali per l’applicazione dell’esercizio, manca la compliance del paziente, che per varie
ragioni non accetta l’idea di un simile training
come cura per i propri sintomi o soluzione dei propri problemi.
Anche
se la via da percorrere per un impiego della humor therapy nei trattamenti psichiatrici sembra ancora lunga e le
indicazioni appaiono limitate ad un numero ristretto di disturbi e di casi, un
più generico uso di un esercizio volto a promuovere le nostre risorse
umoristiche e comiche per far fronte agli effetti negativi dello stress e delle frustrazioni della vita
quotidiana, sembra avere una prospettiva più rosea. E, anche se non vogliamo o
non possiamo partecipare ad un corso specialistico che migliori la nostra
disposizione temperamentale e ci aiuti a cogliere gli aspetti grotteschi delle
situazioni, sarà utile aver presenti i benefici effetti dell’umorismo e delle
risate sulla nostra mente e sul nostro organismo, per coltivare un modo di
essere e di affrontare la vita che certamente giova alla salute.
Cenni Storici
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26. Zweyer K., Velker B. &
Ruch W. Do Cheerfulness, Exhilaration, and Humor Production Moderate Pain
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[1] La relazione fu tenuta il 14-05-09 ad un incontro del gruppo di studio sui Positive Affects (PA) di BM&L e, poi, registrata, trascritta e sintetizzata per la pubblicazione sul sito web in 9 puntate settimanali, dal 16-05-09 all’11-07-09, nelle “Note e Notizie”, col titolo “Basi degli effetti benefici di umorismo e risate”. Il gruppo di studio sui PA si costituì in seno al Seminario sulla felicità di Brain, Mind & Life che, ricordiamo, aveva preso le mosse da una serie di incontri tenutisi fra il 2006 e il 2007 presso il caffè storico fiorentino “Gilli”. In uno di quegli incontri alcuni si chiedevano il perché della risata, affascinati dall’origine inspiegabile di questa particolare reazione, che appariva loro estranea allo stile prevalente nei comportamenti sociali umani, quasi un “retaggio arcaico” di una fase evolutiva ormai lontana. Probabilmente tale sensazione di estraneità deriva dalla costante mediazione cognitiva e linguistica che la cultura umana, attraverso l’educazione, l’imitazione inconsapevole e il consolidarsi di abitudini in stereotipi di comportamento, ha reso obbligatoria per la massima parte delle espressioni socializzate dei nostri stati affettivi. L’ottica scientifica dovrebbe rovesciare questa angolazione visuale, accostando la reazione psico-neuromotoria alle altre risposte naturali dell’organismo all’ambiente, nelle quali è evidente che la funzione di segnale, corrispondente alla componente comunicativa di una risposta istintiva, è accessoria o epifenomenica, mentre il valore principale è da rintracciarsi nell’economia funzionale o nella sopravvivenza dell’organismo.
[2] Gli studi classici effettuati con la stimolazione mediante elettrodi posti sul viso di soggetti volontari (si vedano, ad esempio, gli studi di Braus, le cui immagini sono riportate nei trattati di anatomia di Testut-Jacob e Testut-Latarjet) hanno evidenziato l’importanza del muscolo zigomatico nel trarre in alto e in fuori la commessura delle labbra nel riso e in un sorriso bene espresso e non solo accennato, ed hanno attribuito al muscolo risorio del Santorini, in tutti i casi della sua entrata in funzione, la trazione degli angoli della bocca verso l’esterno.
[3] Uno stato dell’arte della fisiologia della risata è in corso e sarà prossimamente presentato ai soci di BM&L-Italia da un gruppo guidato da Diane Richmond, mentre per ciò che concerne l’avvio di nuovi studi sperimentali, le probabilità sono molto scarse, anche perché il progetto, da una prima verifica effettuata, non sembra trovare enti pubblici o soggetti privati disposti a finanziarlo.
[4] Carl Gerog Lange, medico e psicologo danese (1834-1900), elaborò indipendentemente una teoria fisiologica delle emozioni simile a quella di William James (James-Lange theory of emotion), giungendo ad identificare le risposte vasomotorie con gli stati emotivi.
[5] James W., What is an emotion?
Mind 9 (34): 188-205, April 1884.
[6] Penfield W. & Rasmussen T., The Cerebral Cortex of Man. Macmillan, New York 1950.
[7] Il primo Laughter Day ebbe luogo in India, a Mumbai, l’11 gennaio 1998. Da allora numerosi eventi dedicati alla risata e alle manifestazioni dell’umore allegro sono stati programmati in Australia, in America e in Europa.
[8] Prospettiva che, in ogni caso, ha attualmente uno scarso interesse, perché abbiamo sufficienti dati e nozioni per considerare i processi centrali e periferici quali parti di un complesso insieme che continuamente integra e sintetizza le attività locali in un quadro globale di equilibri funzionali.
[9] Si veda in G. Perrella, Lezioni di Neurochimica. BM&L, Firenze 2006, e G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 2005.
[10] Si veda sul sito seguendo il percorso RUBRICHE – INTERVISTE – Intervista a Giuseppe Perrella: in risposta alla sedicesima domanda si sintetizzano in quattro punti gli eventi principali identificati nella patogenesi della depressione da stress. Qui ricordiamo che il CRH rilasciato dall’amigdala può considerarsi il punto di partenza della via che media la risposta acuta alla paura e a fattori stressanti; quando lo stress diventa cronico, i glucocorticoidi attivano i neuroni nor-adrenergici del locus coeruleus, che stimola l’amigdala avviando un circolo vizioso che perpetua uno stato di allarme e squilibrio omeostatico con conseguenze tossiche per il cervello. Naturalmente, questo meccanismo non è il solo ad operare in questi casi: si rinvia alle “Note e Notizie” per altre più recenti acquisizioni sui meccanismi dello stress.
[11] Si veda in G. Perrella, Lezioni di Neurochimica. BM&L, Firenze 2006.
[12] Come già anticipato nei cenni storici, le osservazioni di questo medico americano hanno dato luogo ad un filone di ricerca che indaga gli effetti antidolorifici dell’umorismo.
[13] Si veda in
Steve Ayan, Laughing Matters. Scientific American MIND 20 (2): 24-31, April/May/June 2009.
[14] Zweyer K., Velker B. & Ruch W. Do Cheerfulness, Exhilaration, and Humor Production Moderate Pain Tolerance? A FACS Study. Humor 17 (1/2): 85-119, 2009.
[15] Ad esempio, in questo caso è stata studiata la variazione della soglia del dolore, della durata della tolleranza, dell’intensità percepita, ecc.
[16]
Si veda alle pagine 29-30 di Steve Ayan, Laughing Matters. Scientific American
MIND 20 (2): 24-31, April/May/June 2009.
[17] Bressler E. R. & Balshine S. The Influence of Humor on Desiderability. Evolution and Human Behavior 27, 29-39, 2006.
[18] Quanto incidano i fattori culturali è difficile dirlo, mentre è facile affermare che l’esito di questo studio non sorprende affatto chi abbia un po’ di esperienza di vita nei rapporti umani e una buona conoscenza di personaggi della narrativa e della letteratura classica. Molto si è speculato in passato sull’influenza di prototipi e stereotipi del maschio sul comportamento femminile, anche se non sono mancati gli antropologi di formazione biologica ed evoluzionista che hanno giustificato tali preferenze sulla base del vantaggio selettivo di patterns comportamentali di origine neuroendocrina.
[19] Si veda in
Steve Ayan, op. Cit., p. 30.
[20] Steve Ayan, op. Cit., ibidem.
[21] Anche qui si può dire che il dato non è nuovo e, se un rammentare colto ce lo fa rintracciare nel teatro greco, la cultura popolare lo considera acquisito, come nel riferimento implicito in una vecchia canzone di Charles Aznavour (“Ed io tra di voi”): tu ridi troppo, hai scelto già.
[22] Nancy Yovetich è attualmente ricercatrice in campo farmaceutico presso la Rho Inc.
[23] Questo aspetto, più volte evidenziato negli incontri del gruppo di studio sulle basi neurobiologiche degli affetti positivi nell’ambito del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, non è trascurabile, perché il diffuso impiego di farmaci sedativi come i benzodiazepinici ha creato un’assuefazione all’idea che l’ansia non si possa neutralizzare senza una complessiva riduzione di attività delle reti di neuroni dell’encefalo che presiedono alle funzioni psichiche.
[24] In molti scritti in cui si riferisce dell’impiego di questa scala, si parla di carattere ma, più propriamente, secondo i criteri classici della semeiotica psichiatrica, l’aspetto considerato dagli autori della STCI dovrebbe essere definito temperamento.
[25] Tale affermazione, nel suo significato letterale, attende ancora una verifica scientifica, anche se gli effetti benefici dell’umorismo sulla psiche sono ormai accertati.
[26] Il rapporto fra luce e affetti positivi ed espansivi è stato studiato nell’ambito del Seminario Permanente sull’Arte del Vivere, dove sono stati presi in esame numerosi aspetti percettivi (dal collegamento dell’esperienza cromatica e tonale alla luce, alla sua fisica rilevazione da parte della ghiandola pineale, ecc.) e neuropsichici; in particolare si è assunto come punto di partenza il testo di una presentazione dal titolo “Luce e Gioia”, per la prima volta proposta ad un incontro tenutosi il 18 novembre 2006 a Firenze, presso il Caffè Storico “Gilli” in Piazza della Repubblica. L’associazione della luce alla gioia e della tristezza all’oscurità, erano indagate in chiave storico-linguistica, antropologica, filosofica e neurobiologica. La relazione si avvalse della collaborazione del dottor Patrizio Perrella e della dottoressa Maria Rosaria Daniele.
[27] Sigmund Freud, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewußten. Gesammelte Werke, Imago Publishing
Co., London 1941.
[28] Del rischio di cadere in una versione attuale dell’errore dei vecchi frenologi, che attribuivano facoltà e inclinazioni a presunti “organi mentali”, nella localizzazione delle funzioni mediante risonanza magnetica funzionale (RMF o fMRI), si è ampiamente discusso in molti scritti che appaiono nelle “Note e Notizie”, ai quali si rimanda il lettore.
[29] Ricordiamo che nel testo freudiano i motti di spirito sono distinti e caratterizzati in base a tre criteri, ossia la tecnica, lo scopo e la natura, ciascun criterio consente l’attribuzione ad uno di due sottogruppi: 1) secondo la TECNICA impiegata possono essere verbali o concettuali; 2) secondo lo SCOPO, innocenti o tendenziosi; 3) secondo la NATURA, banali o profondi.
[30] Citato da Ingrid Wickelgren in
“Humor in the Brain” Scientific American
MIND 20 (2): 28, April/May/June
2009.
[31]
Si veda per una sintesi dei lavori citati a p. 28 di Steve Ayan, Laughing
Matters. Scientific American MIND 20 (2): 24-31, April/May/June 2009.
[32] Si veda Steve Ayan, Op. Cit., p. 30 (comunicazione non pubblicata di Rush ad Ayan).
[33] Da anni in quella sede si organizzano simposi e scuole estive su teoria, ricerca ed applicazione nel campo dell’umorismo e della risata, patrocinati dalla International Society for Humor Studies (ISHS): http://www.hnu.edu/ishs/.
[34] In questo paragrafo si fa riferimento solo alla sperimentazione controllata basata sull’applicazione a disturbi depressivo-ansiosi di programmi di training formalizzati e già verificati su volontari sani. Più sopra si è fatta menzione degli effetti antidolorifici del buon umore, ma in quel campo la ricerca è ancora agli inizi e manca una vera propria letteratura scientifica sulla terapia del dolore mediante l’induzione di risate e divertimento.
[35] Molti autori fanno risalire l’origine dell’impiego dell’umorismo a scopo terapeutico ad un’opinione secondo loro espressa da Freud nel 1928 (per la precisione si tratta di un’affermazione contenuta nel saggio sull’umorismo che fu dato alle stampe nel 1927), consistente nell’attribuzione al senso dell’umorismo della capacità di proteggerci da affetti generati naturalmente in alcune circostanze. La citazione non appare tutttavia molto appropriata perché, se pure Freud avesse auspicato questo impiego, non sarebbe stato il primo, in quanto risulta che una simile idea era già stata proposta in precedenza, ma, soprattutto, conoscendo i testi freudiani difficilmente si potrebbe attribuire al padre della psicoanalisi l’intenzione di usare l’umorismo come terapia. In Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten (1905), sebbene riconosca all’arguzia la dignità di facoltà mentale da accostare ad intelligenza e memoria, Freud non esita a paragonare ad una psiconevrosi la facile tendenza al motto di spirito e al comico. In questa sede si è deciso di omettere, perché esulerebbero per argomento ed estensione dai limiti di questo scritto, i riferimenti alle opinioni espresse dagli “autori di Freud” su questo tema, fra cui quella del celebre psichiatra e nosografista Kraepelin, nel saggio del 1885 sulla psicologia del comico, e quella di Kant nella Critica del Giudizio (I,1,54), oltre a quelle dei filosofi Theodor Vischer, Kuno Fischer e Theodor Lipps, e del romanziere Jean Paul Richter, alle quali si rimanda per approfondire l’origine della prospettiva freudiana.
[36] Non bisogna sottovalutare gli effetti negativi dei motti di spirito quando sono impiegati per dileggiare, svalutare o vilipendere qualcuno. In proposito, ricordiamo che l’interesse di Freud per il motto di spirito nei suoi rapporti con l’inconscio nasce proprio dalle storielle umoristiche sugli Ebrei, basate su luoghi comuni denigratori e caricaturali di quelli che si riteneva fossero i caratteri di un popolo. Questo umorismo in parte può essere accostato a quello tipico delle barzellette americane sui Polacchi (diventate in Italia le barzellette sui carabinieri) ai quali si attribuiva una stupidità in grado di dar luogo ad esiti assurdi e divertenti; in parte consisteva in cattiverie gratuite che mal celavano avversione ed ostilità, e che furono amplificate e diffuse ad arte dalla macchina di propaganda nazista per generare frustrazione, umiliazione e sensi di colpa nella minoranza di tradizione ebraica, ed alimentare contro di essa l’intolleranza e l’odio razziale nei cittadini del Terzo Reich.