BRAIN MIND & LIFE SULLA CANNABIS

AGGIORNAMENTO

 

 Firenze, 16 SETTEMBRE 2005

SCHEDA INTRODUTTIVA

 

CANNABINOIDI E ABUSO DI CANNABIS

 

 

In questa scheda vogliamo introdurre, anche se molto sinteticamente, tutti i temi dei lavori di review che saranno presentati stamani per questo aggiornamento. Per comodità abbiamo raggruppato tutti i contributi in due gruppi distinti per argomento generale: 1) la neurobiologia dei cannabinoidi; 2) fisiopatologia, farmacologia e clinica dell’uso e dell’abuso dei derivati della cannabis.

 

 

 

CANNABINOIDI

 

L’estratto della sommità delle infiorescenze della pianta femmina di Cannabis sativa contiene un gran numero di composti psicoattivi, fra i quali la molecola che ha dimostrato il massimo grado di attività in ogni saggio sperimentale è l’alcole Δ9Tetraidrocannabinolo  9THC).

Sebbene si avesse la certezza che l’azione sulla fisiologia cerebrale di questi composti fosse possibile grazie all’interazione con molecole espresse sulla membrana neuronale per un ligando endogeno, non se ne è potuto stabilire il meccanismo d’azione fino a tempi recenti, quando sono stati scoperti i recettori per quelle molecole prodotte dall’organismo dette  cannabinoidi o endocannabinoidi per sottolinearne l’origine naturale.

La scoperta fu casuale, perché avvenne nel corso di un accurato screening del DNA di ratto per individuare i geni dei recettori per le neurochinine. Fu rinvenuto un recettore -come si dice in gergo- “orfano” del ligando. Si trattava di una nuova proteina 7TM G-accoppiata, di 473 aminoacidi, la cui distribuzione cerebrale si vide che coincideva con un noto ligando cannabinoide radiomarcato: 3HCP-55.940. Il sospetto che si trattasse del recettore per i cannabinoidi fu confermato da successive indagini biochimiche e da esperimenti fisiologici che dimostrarono l’inibizione dell’adenilil-ciclasi, noto effetto dei composti della cannabis.

Il recettore fu battezzato CB1, perché si individuò un secondo recettore nel sistema immunitario, CB2, la cui esistenza potrebbe spiegare gli effetti immunosoppressivi dei derivati della cannabis.

Il recettore CB1 si trova in maggior numero nell’ippocampo, nei nuclei della base, nel cervelletto e nel grigio periacqueduttale troncoencefalico e spinale. La localizzazione di CB1 è di gran lunga prevalente sulla membrana pre-sinaptica e si è accertato che la sua attivazione si esprime attraverso una riduzione del rilascio del neuromediatore.

I meccanismi molecolari che operano determinando la riduzione del rilascio dei vari neurotrasmettitori a seguito della stimolazione di CB1, come spesso accade nel cervello, sono probabilmente numerosi, tuttavia attualmente la ricerca ha fornito prove a sostegno per due soli meccanismi.

 

1) Quando il Δ9THC,  l’3HCP-55.940 o un altro ligando interagisce con il recettore CB1, per inibizione dell’adenilil-ciclasi si ha riduzione dell’AMP-ciclico nel terminale presinaptico. Come è noto, l’AMP-ciclico determina l’attivazione della proteinchinasi A (PKA) con fosforilazione ed inattivazione dei canali del potassio, in particolare di KA. Conseguentemente l’attivazione del recettore per i cannabinoidi, riducendo l’AMP-ciclico, disinibisce KA. Ciò comporta l’accorciamento della durata della depolarizzazione della membrana sinaptica quando un potenziale d’azione la raggiunge.

 

2) Quando il Δ9THC,  l’3HCP-55.940 o un altro ligando interagisce con il recettore CB1, la proteina G accoppiata inibisce direttamente il Tipo-N di canali del calcio situati sulla stessa membrana presinaptica.

 

Entrambi i meccanismi portano alla riduzione della quantità di neuromediatore rilasciato nello spazio intersinaptico.

 

Endocannabinoidi. Da molti anni se ne ipotizzava l’esistenza in quanto era noto che i composti della cannabis non si legavano ai recettori per i neurotrasmettitori conosciuti, ovvero la loro azione non si esplicava come agonismo od antagonismo recettoriale per molecole come la 5-HT, la Dopamina, la NA, l’Ach, eccetera, per cui era lecito pensare che esistesse un sistema ligando-recettore naturale con il quale interferiva la cannabis. Naturalmente l’identificazione del recettore CB ha ulteriormente confermato questa ragionevole supposizione.

Dei due maggiori candidati, ossia il 2-arachidonilglicerolo (2-AG) e l’arachidonil-etanolamide (anandamide), solo le evidenze per il secondo composto hanno ricevuto sufficienti conferme sperimentali.

Sono in corso numerose ricerche per conoscere i processi che consentono all’anandamide di esercitare il suo effetto sui recettori presinaptici. Attualmente si ritiene  che l’amide sia prodotta dal neurone post-sinaptico e rilasciata nello spazio intersinaptico, che la molecola attraversa per diffusione legandosi al recettore CB1 sulla membrana presinaptica. L’azione dell’anandamide si esercita moderando o, al massimo, inibendo il rilascio di neurotrasmettitore, con variazioni dipendenti da numerosi fattori ancora allo studio. E’ importante rilevare che i recettori CB1 sono presenti sulle membrane di neuroni eccitatori ed inibitori che impiegano mediatori diversi e seguono la logica funzionale del sistema e del gruppo neuronico cui appartengono. Pertanto la descrizione dell’effetto del legame dell’anandamide al recettore CB1 non può prescindere dal tipo di neurone cui si riferisce. Lo schema del meccanismo d’azione che abbiamo riportato, è stato bene studiato in varie ricerche condotte sulle sinapsi inibitorie GABA-ergiche dell’ippocampo e sui neuroni di Purkinje del cervelletto, e si è visto che interviene quando la cellula post-sinaptica è depolarizzata.

I recettori CB1 sono ampiamente distribuiti nel sistema nervoso centrale e il neuromediatore che è sottoposto all’azione di inibizione degli endocannabinoidi varia da un’area funzionale all’altra, talvolta a breve distanza e in maniera non sempre prevedibile. Si è accertato che nella corteccia prefrontale di ratto il trasmettitore inibito è il glutammato, nell’ippocampo l’Ach e il GABA, nello striato la dopamina, e nei neuroni del grigio periacqueduttale tanto il glutammato quanto il GABA.

E’ impressionante il numero di funzioni e processi cui il sistema dei cannabinoidi prende parte. In una estrema sintesi fisiologica si può dire che interviene nei meccanismi molecolari di memorizzazione mediati dall’ippocampo, in quelli finalizzati al movimento nei nuclei della base e nel cervelletto, in quelli dell’analgesia nel grigio periacqueduttale del tronco encefalico e del midollo spinale.

Esperimenti condotti in topi knock-out per CB1 hanno evidenziato un notevole miglioramento della memoria di breve termine. Questo dimostra che la stimolazione del recettore CB1 da parte degli endocannabinoidi interferisce con i processi di formazione dei ricordi, ed ha suggerito l’ipotesi che il sistema CB1-anandamide sia funzionale alla perdita di memoria o, come da alcuni di noi sostenuto, intervenga nel resetting dei sistemi di apprendimento, determinando la temporanea inattivazione dei meccanismi di registrazione per consentirne un pieno ed ottimale utilizzo.

La memoria, così come viene intesa in psicologia, corrisponde in neurobiologia ad una complessa ed intricata rete di sottofunzioni in cui gli endocannabinoidi giocano un ruolo minimo. Tuttavia, come è stato dimostrato in numerosissimi studi condotti su coloro che assumono abitualmente derivati della cannabis, gli effetti sull’apparente cancellazione di ricordi pregressi e la riduzione delle prestazioni in compiti di memoria è davvero rilevante. Questo effetto si spiega con l’azione tossica dovuta alla dose ed alla varietà dei composti contenuti nei prodotti fumati o ingeriti che determinerebbero un forte squilibrio in una pur piccola componente del complesso sistema della memoria. D’altra parte è noto in biochimica, fisiologia, farmacologia e tossicologia che un’azione artificiale, squilibrando una parte sia pur minima di un sistema naturale, per azione a catena sulle componenti interconnesse, possa sortire un effetto rilevante.

Il ruolo svolto dagli endocannabinoidi sui nuclei della base ugualmente si presenta molto complesso e difficile da schematizzare. Negli esperimenti sugli animali, l’azione di dosi crescenti di molecole in grado di legarsi ai CB1 dei nuclei della base, determina una caratteristica curva di risposta in tre fasi. Nella prima fase si ha una riduzione dei movimenti connessi con le attività spontanee dell’animale (ipomotilità), per basse dosi; la seconda fase, che fa seguito al crescere delle dosi, è caratterizzata da aumento della motilità; la terza fase, che corrisponde alle dosi più alte somministrate, esita in una vera e propria catalessia (nel ratto alla dose di 2,5 mg/Kg-1).

Per quanto riguarda il cervelletto, a causa della scarsa comprensione del valore fisiologico della sua intricata architettura funzionale, la ricerca non è ancora riuscita a chiarire il ruolo svolto dall’elevata concentrazione dei CB1 cerebellari nell’economia dei rapporti del sistema extrapiramidale.

L’analgesia dovuta agli endocannabinoidi è senz’altro da ascriversi all’interazione con il recettore CB1 degli interneuroni situati nel grigio periacqueduttale delle vie dolorifiche, in evidente analogia con il sistema molecolare degli oppiati endogeni.

 

 

 

ABUSO DI CANNABIS

 

L’argomento dell’abuso, in senso stretto, nelle sue componenti psicologiche, tossicologiche e psichiatriche, lo lasciamo alle vostre relazioni. In questa introduzione ci è parso opportuno delineare, sia pur sommariamente, la storia dell’assunzione dei derivati della cannabis nelle sue prime preparazioni, con la conseguente nomenclatura, e fornire dei cenni sulla pianta Cannabis sativa e sulla farmacologia dei suoi derivati.

 

CENNI STORICI. La più antica testimonianza dell’uso della cannabis è datata 2737 a. C., anno cui si fa risalire la menzione rinvenuta in un compendio cinese di medicina, ossia l’erbario dell’imperatore Sheng Nung. Non si ha per i secoli successivi un precisa documentazione storica, ma si ritiene che l’uso come sostanza psicotropa si sia progressivamente diffuso dalla Cina all’India e, successivamente, all’Africa Settentrionale.

 

 

In ogni epoca della storia e a tutte le latitudini la pianta di canapa ha fornito fibre tessili. Nelle società arcaiche e nelle culture tribali i suoi estratti sono stati adoperati a scopo inebriante in cerimonie rituali e, come è accaduto a molte altre piante di facile coltivazione o reperimento, è divenuta una panacea.

Si trovano documentazioni antichissime di usi popolari come medicamento per la tosse, per stati di agitazione o di tedio psichico, per le cefalee, per l’emicrania, per l’asma, per i dolori ossei, articolari, mestruali, ecc. Questi usi etnoiatrici sono stati documentati in India ed erano presenti in Nord-America, quando la medicina americana degli esordi, muovendo i primi passi in una realtà dominata da superstizione ed analfabetismo, ne fu influenzata assumendone l’impiego piuttosto acriticamente.

Nel Nuovo Mondo la marijuana era conosciuta ed impiegata da secoli, soprattutto nell’America Meridionale e Centrale. Negli USA, invece, non ebbe mai una larga diffusione, particolarmente nelle aree della East Coast, forse anche a motivo dell’estesa presenza di popolazioni di cultura cristiana provenienti dal Nord Europa. Tuttavia, intorno al 1920, si ebbe un’inversione di tendenza e, per un certo periodo, i derivati della canapa furono inclusi fra le sostanze medicamentose della farmacopea statunitense. Nel 1937, dopo una breve stagione di controversie, i derivati della cannabis noti con il nome di marijuana furono drasticamente banditi dall’uso terapeutico. Probabilmente in ragione dei loro frequenti effetti tossici acuti, delle alterazioni della coscienza e della difficoltà di dosare i principi attivi nelle preparazioni artigianali del vegetale. Sicuramente ebbe un peso in questa decisione lo studio condotto tre anni prima dall’autorevole psichiatra di New York, Walter Bromberg, di cui si dirà più avanti.

Le popolazioni europee, tranne possibili eccezioni sporadiche, non conobbero questo uso fino al XIX secolo quando, secondo una narrazione tradizionale ripresa da numerose fonti, truppe dell’Esercito napoleonico al ritorno dalla campagna d’Egitto portarono in patria preparazioni delle foglie e di altre parti della pianta adatte all’assunzione mediante fumo o ingestione.  

Il “Club des Hachichins”, ossia dei fumatori di hashish, di cui fecero parte Baudelaire, Gautier e Dumas padre, contribuì a diffondere tra il 1850 e il 1860 in una capitale culturale come Parigi, sia l’uso dei derivati della cannabis, sia una sorta di mitologia romanzesca che, intesa a suscitare le attenzioni morbose del pubblico dei lettori, finì per conferire al vegetale una fama sinistra che andava molto al di là delle sue reali potenzialità. Così si attribuì all’hashish la responsabilità dei sintomi psicotici e della morte di Baudelaire, trascurando la possibilità, sia pure con ruolo di concausa, della sua abitudine alle libagioni alcoliche nella genesi dei primi e della sifilide terziaria, di cui era affetto, nel sopraggiungere della seconda.

Forse la prima descrizione accurata ed attendibile degli effetti della cannabis è quella che ne diede nel 1854 lo scrittore, conferenziere e viaggiatore americano Bayard Taylor, dopo averla assunta durante un viaggio in Egitto. A parte lo stile, che talvolta è decisamente poetico-letterario, lo scritto sostanzialmente corrisponde nei contenuti ai resoconti che si leggeranno nel secolo successivo. Taylor nota che, anche durante la mezz’ora di massimo effetto, la coscienza non era stata mai compromessa al punto di non consentirgli di studiare con precisione le alterazioni dell’esperienza, o di portarlo a considerare reali le distorsioni percettive. Tuttavia rimane impressionato dall’apparente mutamento della realtà circostante: “Mentre queste sensazioni continuavano, gli oggetti da cui ero circondato assunsero un’espressione strana e bizzarra […] scoppiai in un lungo accesso di risate”. Lo scrittore americano -come molti ancora oggi- chiama allucinazioni questi fenomeni, si tratta invece di illusioni. [1]

Per una prima descrizione clinica si deve giungere al 1934, quando il celebre psichiatra newyorkese Walter Bromberg redasse una relazione basata sull’osservazione e sul colloquio sistematico con numerose persone sotto gli effetti di preparazioni della cannabis, oltre che sull’esperienza personale dell’assunzione.

Nella relazione di Bromberg si legge: “Lo stato di intossicazione inizia con un periodo di ansietà da dieci a trenta minuti dopo aver fumato, durante il quale il soggetto a volte mostra paura di morire e ansietà di natura vaga, associate a irrequietezza e iperattività. Nel giro di alcuni minuti comincia  a sentirsi più calmo e subito mostra chiari segni di euforia; diventa loquace […] si rallegra e si esalta […] comincia ad avvertire uno stupefacente senso di leggerezza agli arti e al corpo”.

Un primo dato interessante è costituito dalla descrizione degli effetti come intossicazione. Un altro aspetto che fa di questa relazione un documento spesso citato, riguarda lo sforzo di obiettività di Bromberg: lo psichiatra, pur comprendendo lo stato d’animo delle persone che osserva per aver sperimentato personalmente uno stato mentale simile, veste i panni di un osservatore neutro. Infatti, si legge: “Ride fragorosamente e senza controllo […] a volte senza il minimo stimolo”, poi prende decisamente le distanze: “il rapido fluire di idee dà l’impressione di vivezza di pensiero e di osservazione, ma è evidente la confusione quando tenta di ricordare quello che aveva pensato”.

Bromberg propose una stima della durata degli effetti -da due a quattro ore per il fumo, da cinque a dodici per l’ingestione-  ritenuta valida negli ambienti medici fino a tempi recenti.

In quello stesso periodo Robert Morrow, per conto della Commissione di ricerca istituita dal sindaco di New York Fiorello La Guardia, studiò gli effetti dei derivati della canapa sulle funzioni psicomotorie e sensoriali, mentre Florence Halperm evidenziò la riduzione delle prestazioni alle prove psicometriche, indagando gli effetti sulle funzioni intellettive.

Dopo l’epoca della “Commissione La Guardia”, con i progressi compiuti nelle neuroscienze di base e cognitive, si entra nella storia recente. 

 

LA PIANTA. E’ importante fornire qualche dato a proposito della pianta, perché i neurobiologi e i farmacologi molecolari, che insieme costituiscono il numero maggiore di esperti che studia questo argomento, se ne disinteressa considerando questi elementi di conoscenza come semplici curiosità botaniche o farmacognosiche. Il risultato di questa ingiustificata “sufficienza” è che spesso mancano nelle trattazioni su cui si formano studenti e ricercatori riferimenti apparentemente banali, ma tuttavia utili per una migliore collocazione culturale delle proprie conoscenze.  

Innanzitutto bisogna notare che, se in genere si tende a fare riferimento alla pianta di canapa da cui si ricavano i prodotti psicotropi con il nome di Cannabis sativa, tuttavia in molti autorevoli scritti classici si parla, ad esempio, esclusivamente di Cannabis indica (da cui l’uso di “canapa indiana” come sinonimo di marijuana o hashish). Dunque, Cannabis è il nome del genere, sativa, il nome della specie; indica qualifica una sottospecie, pertanto sarebbe più corretto scrivere Cannabis sativa indica. Ma sativa qualifica anche una sottospecie ritenuta buona produttrice di resina cannabinoide, alla quale si deve il nome di Cannabis sativa sativa.

Questa premessa è importante perché, da un canto, oggi la maggior parte dei lavori scientifici che cita la pianta parla solo di Cannabis sativa, potendo indurre chi non abbia preparazione al riguardo nell’errore di ritenere che si tratti sempre di un unico tipo vegetale, dall’altra, è noto che non tutte le varietà e le sottospecie vengono coltivate per gli stessi scopi.

A questo proposito vogliamo anche notare che l’importanza sociale assunta dall’assunzione di sostanze psicotrope in generale, ha moltiplicato gli articoli giornalistici, i servizi televisivi, gli scritti sul web, in cui la focalizzazione su Cannabis sativa sembra lasciare intendere che esista un solo tipo di canapa, quello da cui si ricava una sostanza psicotropa che i consumatori vorrebbero si adoperasse in terapia. Pertanto non è superfluo precisare che esistono altre piante simili da cui si ricavano fibre e medicinali, un esempio è la Canapa del Canada che, in passato classificata tra le Apocinee, è usata per la produzione di fibre per tele da imballaggio e corde, ed è fonte di composti cardiotropici ad azione digitalica.

La classificazione impiegata dalla banca genetica internazionale degli organismi inquadra così la nostra pianta:

 

cellular organisms; Eukaryota; Viridiplantae; Streptophyta; Streptophytina; Embryophyta; Tracheophyta; Euphyllophyta; Spermatophyta; Magnoliophyta; eudicotyledons; core eudicotyledons; rosids; eurosids I; Rosales; Cannabaceae; Cannabis.

 

Una classificazione più precisa, che soddisfa vari criteri tassonomici, è quella adottata dall’Integrated Tassonomic Information System che riportiamo qui di seguito.

 

 

Kingdom

Plantae  -- Planta, plantes, plants, Vegetal

 

 

 

   Subkingdom

Tracheobionta  -- vascular plants

 

 

      Division

Magnoliophyta  -- angiospermes, angiosperms, flowering plants, phanérogames, plantes à fleurs, plantes à fruits

 

 

         Class

Magnoliopsida  -- dicots, dicotylédones, dicotyledons

 

 

            Subclass

Hamamelidae 

 

 

               Order

Urticales 

 

 

                  Family

Cannabaceae  -- hemp

 

 

                     Genus

Cannabis L. -- hemp

 

 

                        Species

Cannabis sativa L. -- grass, hashish, hemp, marijuana, Mary Jane, pot

 

 

 

Direct Children:

 

 

                           Variety

Cannabis sativa var. sativa L. -- marijuana

 

 

                           Variety

Cannabis sativa var. spontanea Vavilov -- marijuana

 

 

                           Subspecies

Cannabis sativa ssp. indica (Lam.) E. Small & Cronq. -- grass, hashish, hemp, marijuana, Mary Jane, pot

 

 

                           Subspecies

Cannabis sativa ssp. sativa L. -- grass, hashish, hemp, marijuana, Mary Jane, pot

 

 

 

 

Cannabis sativa è una pianta erbacea in passato classificata tra le Moracee a stelo dritto[2], alta fino a 5 m., che cresce spontaneamente in molte parti del mondo, dove è coltivata  per ottenerne fibre tessili e preparazioni impiegate a scopo medicamentoso o psicotropo. E’ una specie dioica in cui gli organi maschili e quelli femminili si trovano in due piante diverse, dette per questo maschio e femmina. Le sostanze attive sono contenute in una resina giallo-dorata che copre le infiorescenze e le foglie apicali della pianta femminile matura e che, nel suo profumo, ricorda la menta.

Le fibre si ottengono mediante macerazione; con questo processo si separano con la gramola dalla parte legnosa (canapule): le fibre sono usate per tessuti e cordami, i canapuli per bruciare, per farne carta da imballaggio, carbone, polvere da sparo. I semi, rotondi, lisci, duri e dal nucleo tenero (canapuccia) si impiegano come becchime, gradito a molti uccelli nostrani, e per estrarne l’olio.

I prodotti psicotropi si trovano nelle foglie e in tutte le parti della pianta, ma sono concentrati specialmente nella sommità fiorita della pianta femmina, da cui trasuda la resina che ne contiene la massima quantità; in genere estratti da tipi locali della pianta prescelti per questo scopo: Cannabis sativa sativa, Cannabis sativa indica, ecc.

La resina, che può essere raccolta separatamente, è nota come hashish nel Medio Oriente e come charas in India. Il termine marijuana è usato nel mondo occidentale per indicare una mescolanza di foglie e di infiorescenze femminili della canapa indiana. Negli Stati Uniti, si è definito per legge che il termine marihuana (o marijuana) si possa impiegare in ogni trattazione ufficiale per indicare tutte le parti e le preparazioni della pianta, inclusa la resina pura, più spesso definita hashish. Questa decisione, che ha fatto prevalere le ragioni del pragmatismo su quelle di una semantica che riflettesse la realtà dei prodotti presenti sul mercato, fu avversata da molti; fra questi, lo psichiatra Lester Grinspoon di Harvard ha sostenuto per decenni una distinzione che ancora è possibile riscontrare negli usi locali e, pertanto, riportiamo di seguito in sintesi.

 

Si conoscono almeno tre tipi di preparazioni diverse. La qualità più economica e meno efficace, chiamata “bhang”, si ricava dagli apici di piante selvatiche ed ha un basso contenuto di resina. Il “ganja”, preferito dagli Indù, si ottiene dalle cime fiorite e dalle foglie di piante selezionate da esperti e coltivate con cura, e contiene la maggiore quantità di resina. Il terzo tipo, chiamato in India “charas”, è costituito dalla resina pura raschiata dalla cima delle piante mature e raccolta con perizia per evitarne la contaminazioni con elementi inerti. Solo questa preparazione merita il nome di “hashish”, dalle 5 alle 8 volte più efficace della migliore “marijuana”, ovvero le preparazioni contenenti foglie.

 

La diffusione come sostanza illecita ha moltiplicato le definizioni gergali con le quali la si indica, ad esempio: weed, grass, pot, tea, mary jane, in America e in Gran Bretagna; erba, fumo e simili in Italia; con reefers o joint sono indicate negli USA le sigarette che la contengono, e molti altri vocaboli sono stati impiegati per denominare i cibi, particolarmente i dolciumi, in cui viene aggiunta.

Attualmente negli USA si è generalizzato l’uso, tanto nelle trattazioni scientifiche quanto in quelle non specialistiche o informative, del termine “cannabis”, per indicare tutte le forme in cui si ottengono derivati da impiegare a scopo psicotropo. A questo comodo impiego, adottato anche dall’inglese Smith nel suo autorevole manuale di neurobiologia molecolare, ci siamo adeguati in questa scheda introduttiva.

 

DATI FARMACOLOGICI. La composizione chimica dei prodotti ricavati dalla canapa è estremamente complessa e non completamente nota, come nel caso di molti derivati di organismi vegetali. Tuttavia, sono stati riconosciuti e studiati numerosi composti, chimicamente caratterizzati in prevalenza come alcoli o acidi, fra questi elenchiamo i più noti: cannabigerolo, cannabinolo, cannabidiolo, isomeri del tetraidrocannbinolo, cannabicromene, acido cannabinolico, acido cannabidiolico, acido cannabigerolico, isomeri dell’acido tetraidrocannabinolico.

Già negli anni ’40 si stabilì che le molecole psicoattive, anche a dosi relativamente basse, erano gli isomeri del tetraidrocannabinolo (THC). Negli anni ’70 si ritenne che l’isomero più attivo fosse il composto Δ1THC. Solo nei due decenni successivi gli studi farmacodinamici riconobbero il Δ9THC come il composto più efficace.

Anche i risultati della sperimentazione hanno a lungo risentito delle scarse conoscenze. Ad esempio, la dose letale per gli animali si riferiva ad unità di prodotto e non di molecola; così si diceva che per determinare la morte di un gatto fossero necessari, per via orale, 3 grammi di charas, 8 grammi di ganja o 10 grammi di bhang per Kg di peso corporeo. Si comprende come queste stime fossero ritenute insoddisfacenti dagli stessi farmacologi e “poco scientifiche” dai ricercatori.

Gli effetti sugli animali di basse dosi di queste miscele di composti, difficilmente comparabili fra loro, hanno fornito a lungo risultati contraddittori. Viceversa le dosi più alte facevano invariabilmente riscontrare attivazione del sistema nervoso autonomo con vomito, diarrea, brividi febbrili e manifestazioni associate in vari organi ed apparati, e sintomi del sistema nervoso somatico, con incoordinazione psiconeuromotoria.

Sono da tempo allo studio farmaci e specialità farmaceutiche basate su molecole derivate dalla cannabis per sfruttarne a scopo terapeutico le proprietà oressizzanti, l’azione su nausea e vomito e gli altri effetti positivi noti. In particolare la ricerca si è concentrata sul Δ9THC e sul cannabidiolo (CBD). Sono state sperimentate quattro formulazioni:

 

1)      Δ9THC (high)

2)      Δ9THC-CBD (narrow ratio) 

3)      Δ9THC-CBD (broad ratio)

4)      CBD (high)

Le forme farmaceutiche studiate riguardano tre vie di somministrazione: compresse sublinguali, spray sublinguali e spray per inalazione. Il nome approvato per queste specialità è SATIVEX[3].

 

Delta-9-Tetraidrocannabinolo (Δ9THC) o Dronabinolo. Al Δ9THC ottenuto per via sintetica si è dato il nome di dronabinolo. Chimicamente la molecola, costituita da tre anelli benzenici caratterizzati da tre gruppi metilici, un idrossile ed un C5H11, ha formula grezza C21H30O2 e si denomina come (6aR-trans)-6a,7,8,10a-tetraidro-6,6,9-trimetil-3-pentil-6H-dibenzo[b,d]piran-1-olo.

Il dronabinolo si presenta come un olio resinoso giallo chiaro, insolubile in acqua, che è viscoso a temperatura ambiente e si indurisce per effetto della refrigerazione. Il pKa è 10,6 e ha un coefficiente di ripartizione octanolo/acqua 6.000 : 1 a pH = 7.

In tempi recenti il Δ9THC, dopo il regolare periodo di sperimentazione tossicologica, farmacocinetica, farmacodinamica e clinica, ha ottenuto la registrazione come farmaco-medicamento (MARINOL) e da qualche anno è a disposizione dei medici negli USA e in altri paesi. Questa preparazione farmaceutica è costituita da capsule di gelatina morbida contenenti il farmaco nelle tre dosi in cui lo si è reso disponibile: 2,5/5/10 mg.

 

CONCLUSIONI. Avevamo dedicato un paragrafo di questa scheda alla discussione degli effetti psicotropi ed all’annoso e logoro dibattito politico-mediatico, fortemente ideologizzato, sull’uso dei derivati della cannabis. Si è poi deciso di rinunciarvi, rinviando le nostre considerazioni alla discussione che si terrà dopo le vostre relazioni, anche perché crediamo che lo stato attuale delle conoscenze per molti versi parli da solo.

 

Vogliamo ringraziare per la consulenza, i consigli o il materiale scientifico messoci a disposizione: C. U. M. Smith, N. Cardon, M. Ergetova, D. Richmond, G. Rossi, J. Montgomery, D. Madison.

Per il paragrafo sui cenni storici ringraziamo M. Lanfredini, per i documenti sullo “Studio Bromberg” e sulla “Commissione La Guardia” si ringrazia I. Floriani.

 

Ludovica R. Poggi, Roberto Colonna & Giuseppe Perrella

BM&L-Settembre 2005

www.brainmindlife.org

 

 



[1] Infatti, in psicopatologia si definisce allucinazione la percezione in assenza di oggetto (inteso nel senso più estensivo, anche come stimolo o fenomeno); quando, invece, si è in presenza dell’oggetto e lo si percepisce in maniera distorta, si parla di illusione (uditiva, visiva, gustativa, olfattiva, tattile, ecc.). Tuttavia, queste dispercezioni non sono elemento connotativo dell’assunzione di cannabis, mentre sono tipiche degli psicodislettici (in passato chiamati “allucinogeni”) come l’LSD, il DMT, la mescalina, il peyotl, la psilocibina e i composti sintetici affini di nuova sintesi.

[2] Il genere Cannabacee è stato incluso tra le Moracee (H. A. Gleason, 1968), era stato Fermald, fin dal 1950, a porlo in una famiglia separata, quella delle Cannabinacee.

[3] A seguito dell’accordo intercorso fra la Bayer che ha ottenuto i diritti per la commercializzazione in Europa e la GW-Pharmaceuticals.

 

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