BRAIN MIND & LIFE SULLA
CANNABIS
In
questa scheda vogliamo introdurre, anche se molto sinteticamente, tutti i temi
dei lavori di review che saranno presentati stamani per questo aggiornamento.
Per comodità abbiamo raggruppato tutti i contributi in due gruppi distinti per
argomento generale: 1) la neurobiologia dei cannabinoidi; 2) fisiopatologia,
farmacologia e clinica dell’uso e dell’abuso dei derivati della cannabis.
L’estratto della sommità delle infiorescenze della pianta
femmina di Cannabis sativa contiene un gran numero di composti
psicoattivi, fra i quali la molecola che ha dimostrato il massimo grado di
attività in ogni saggio sperimentale è l’alcole Δ9Tetraidrocannabinolo (Δ9THC).
Sebbene si avesse la certezza che l’azione sulla fisiologia
cerebrale di questi composti fosse possibile grazie all’interazione con
molecole espresse sulla membrana neuronale per un ligando endogeno, non se ne è
potuto stabilire il meccanismo d’azione fino a tempi recenti, quando sono stati
scoperti i recettori per quelle molecole prodotte dall’organismo dette cannabinoidi o endocannabinoidi per sottolinearne l’origine naturale.
La scoperta fu casuale, perché avvenne nel corso di un
accurato screening del DNA di ratto per individuare i geni dei recettori per le
neurochinine. Fu rinvenuto un recettore -come si dice in gergo- “orfano” del
ligando. Si trattava di una nuova proteina 7TM G-accoppiata, di 473 aminoacidi,
la cui distribuzione cerebrale si vide che coincideva con un noto ligando
cannabinoide radiomarcato: 3HCP-55.940. Il sospetto che si trattasse
del recettore per i cannabinoidi fu confermato da successive indagini
biochimiche e da esperimenti fisiologici che dimostrarono l’inibizione
dell’adenilil-ciclasi, noto effetto dei composti della cannabis.
Il recettore fu battezzato CB1, perché si individuò un
secondo recettore nel sistema immunitario, CB2, la cui esistenza potrebbe
spiegare gli effetti immunosoppressivi dei derivati della cannabis.
Il recettore CB1 si trova in maggior numero nell’ippocampo,
nei nuclei della base, nel cervelletto e nel grigio periacqueduttale
troncoencefalico e spinale. La localizzazione di CB1 è di gran lunga prevalente
sulla membrana pre-sinaptica e si è accertato che la sua attivazione si esprime
attraverso una riduzione del rilascio del neuromediatore.
I meccanismi molecolari che operano determinando la
riduzione del rilascio dei vari neurotrasmettitori a seguito della stimolazione
di CB1, come spesso accade nel cervello, sono probabilmente numerosi, tuttavia
attualmente la ricerca ha fornito prove a sostegno per due soli meccanismi.
1) Quando il Δ9THC, l’3HCP-55.940 o un altro ligando
interagisce con il recettore CB1, per inibizione dell’adenilil-ciclasi si ha
riduzione dell’AMP-ciclico nel terminale presinaptico. Come è noto,
l’AMP-ciclico determina l’attivazione della proteinchinasi A (PKA) con
fosforilazione ed inattivazione dei canali del potassio, in particolare di KA.
Conseguentemente l’attivazione del recettore per i cannabinoidi, riducendo
l’AMP-ciclico, disinibisce KA. Ciò comporta l’accorciamento della
durata della depolarizzazione della membrana sinaptica quando un potenziale
d’azione la raggiunge.
2) Quando il Δ9THC, l’3HCP-55.940 o un altro ligando
interagisce con il recettore CB1, la proteina G accoppiata inibisce
direttamente il Tipo-N di canali del calcio situati sulla stessa membrana
presinaptica.
Entrambi i meccanismi portano alla riduzione della quantità
di neuromediatore rilasciato nello spazio intersinaptico.
Endocannabinoidi. Da
molti anni se ne ipotizzava l’esistenza in quanto era noto che i composti della
cannabis non si legavano ai recettori per i neurotrasmettitori conosciuti,
ovvero la loro azione non si esplicava come agonismo od antagonismo
recettoriale per molecole come la 5-HT, la Dopamina, la NA, l’Ach, eccetera,
per cui era lecito pensare che esistesse un sistema ligando-recettore naturale
con il quale interferiva la cannabis. Naturalmente l’identificazione del
recettore CB ha ulteriormente confermato questa ragionevole supposizione.
Dei due maggiori candidati, ossia il 2-arachidonilglicerolo
(2-AG) e
l’arachidonil-etanolamide (anandamide), solo le evidenze per il secondo composto hanno ricevuto
sufficienti conferme sperimentali.
Sono in corso numerose ricerche per conoscere i processi che
consentono all’anandamide di esercitare il suo effetto sui recettori presinaptici.
Attualmente si ritiene che l’amide sia
prodotta dal neurone post-sinaptico e rilasciata nello spazio intersinaptico, che la molecola
attraversa per diffusione legandosi al recettore CB1 sulla membrana presinaptica.
L’azione dell’anandamide si esercita moderando o, al massimo, inibendo il
rilascio di neurotrasmettitore, con variazioni dipendenti da numerosi fattori
ancora allo studio. E’ importante rilevare che i recettori CB1 sono presenti
sulle membrane di neuroni eccitatori ed inibitori che impiegano mediatori
diversi e seguono la logica funzionale del sistema e del gruppo neuronico cui
appartengono. Pertanto la descrizione dell’effetto del legame dell’anandamide
al recettore CB1 non può prescindere dal tipo di neurone cui si riferisce. Lo
schema del meccanismo d’azione che abbiamo riportato, è stato bene studiato in
varie ricerche condotte sulle sinapsi inibitorie GABA-ergiche dell’ippocampo e
sui neuroni di Purkinje del cervelletto, e si è visto che interviene quando la
cellula post-sinaptica è depolarizzata.
I recettori CB1 sono ampiamente distribuiti nel sistema
nervoso centrale e il neuromediatore che è sottoposto all’azione di inibizione
degli endocannabinoidi varia da un’area funzionale all’altra, talvolta a breve
distanza e in maniera non sempre prevedibile. Si è accertato che nella
corteccia prefrontale di ratto il trasmettitore inibito è il glutammato,
nell’ippocampo l’Ach e il GABA, nello striato la dopamina, e nei neuroni del
grigio periacqueduttale tanto il glutammato quanto il GABA.
E’ impressionante il numero di funzioni e processi cui il
sistema dei cannabinoidi prende parte. In una estrema sintesi fisiologica si
può dire che interviene nei meccanismi molecolari di memorizzazione mediati
dall’ippocampo, in quelli finalizzati al movimento nei nuclei della base e nel cervelletto, in quelli dell’analgesia nel grigio periacqueduttale
del tronco encefalico e del midollo spinale.
Esperimenti condotti in topi knock-out per CB1 hanno
evidenziato un notevole miglioramento della memoria di breve termine. Questo dimostra che la
stimolazione del recettore CB1 da parte degli endocannabinoidi interferisce con
i processi di formazione dei ricordi, ed ha suggerito l’ipotesi che il sistema CB1-anandamide sia
funzionale alla perdita di memoria o, come da alcuni di noi sostenuto, intervenga nel
resetting dei sistemi di apprendimento, determinando la temporanea
inattivazione dei meccanismi di registrazione per consentirne un pieno ed
ottimale utilizzo.
La memoria, così come viene intesa in psicologia,
corrisponde in neurobiologia ad una complessa ed intricata rete di
sottofunzioni in cui gli endocannabinoidi giocano un ruolo minimo. Tuttavia,
come è stato dimostrato in numerosissimi studi condotti su coloro che assumono
abitualmente derivati della cannabis, gli effetti sull’apparente cancellazione
di ricordi pregressi e la riduzione delle prestazioni in compiti di memoria è
davvero rilevante. Questo effetto si spiega con l’azione tossica dovuta alla
dose ed alla varietà dei composti contenuti nei prodotti fumati o ingeriti che
determinerebbero un forte squilibrio in una pur piccola componente del
complesso sistema della memoria. D’altra parte è noto in biochimica,
fisiologia, farmacologia e tossicologia che un’azione artificiale, squilibrando
una parte sia pur minima di un sistema naturale, per azione a catena sulle
componenti interconnesse, possa sortire un effetto rilevante.
Il ruolo svolto dagli endocannabinoidi sui nuclei della base
ugualmente si presenta molto complesso e difficile da schematizzare. Negli
esperimenti sugli animali, l’azione di dosi crescenti di molecole in grado di legarsi
ai CB1 dei nuclei della base, determina una caratteristica curva di risposta in
tre fasi. Nella prima fase si ha una riduzione dei movimenti connessi con le attività spontanee
dell’animale (ipomotilità), per basse dosi; la seconda fase, che fa seguito al
crescere delle dosi, è caratterizzata da aumento della motilità; la terza fase, che corrisponde alle dosi
più alte somministrate, esita in una vera e propria catalessia (nel ratto
alla dose di 2,5 mg/Kg-1).
Per quanto riguarda il cervelletto, a causa della scarsa
comprensione del valore fisiologico della sua intricata architettura
funzionale, la ricerca non è ancora riuscita a chiarire il ruolo svolto
dall’elevata concentrazione dei CB1 cerebellari nell’economia dei rapporti del
sistema extrapiramidale.
L’analgesia dovuta agli endocannabinoidi è senz’altro da ascriversi
all’interazione con il recettore CB1 degli interneuroni situati nel grigio periacqueduttale delle vie dolorifiche,
in evidente analogia con il sistema molecolare degli oppiati endogeni.
L’argomento dell’abuso, in senso stretto, nelle sue
componenti psicologiche, tossicologiche e psichiatriche, lo lasciamo alle
vostre relazioni. In questa introduzione ci è parso opportuno delineare, sia
pur sommariamente, la storia dell’assunzione dei derivati della cannabis nelle
sue prime preparazioni, con la conseguente nomenclatura, e fornire dei cenni
sulla pianta Cannabis sativa e sulla farmacologia dei suoi derivati.
CENNI STORICI. La più antica
testimonianza dell’uso della cannabis è datata 2737 a. C., anno cui si fa
risalire la menzione rinvenuta in un compendio cinese di medicina, ossia
l’erbario dell’imperatore Sheng Nung. Non si ha per i secoli successivi un
precisa documentazione storica, ma si ritiene che l’uso come sostanza
psicotropa si sia progressivamente diffuso dalla Cina all’India e, successivamente,
all’Africa Settentrionale.
In ogni epoca della storia e a tutte le latitudini la pianta
di canapa ha fornito fibre tessili. Nelle società arcaiche e nelle culture
tribali i suoi estratti sono stati adoperati a scopo inebriante in cerimonie
rituali e, come è accaduto a molte altre piante di facile coltivazione o
reperimento, è divenuta una panacea.
Si trovano documentazioni antichissime di usi popolari come
medicamento per la tosse, per stati di agitazione o di tedio psichico, per le
cefalee, per l’emicrania, per l’asma, per i dolori ossei, articolari,
mestruali, ecc. Questi usi etnoiatrici sono stati documentati in India ed erano
presenti in Nord-America, quando la medicina americana degli esordi, muovendo i
primi passi in una realtà dominata da superstizione ed analfabetismo, ne fu
influenzata assumendone l’impiego piuttosto acriticamente.
Nel Nuovo Mondo la marijuana era conosciuta ed impiegata da
secoli, soprattutto nell’America Meridionale e Centrale. Negli USA, invece, non
ebbe mai una larga diffusione, particolarmente nelle aree della East Coast,
forse anche a motivo dell’estesa presenza di popolazioni di cultura cristiana
provenienti dal Nord Europa. Tuttavia, intorno al 1920, si ebbe un’inversione
di tendenza e, per un certo periodo, i derivati della canapa furono inclusi fra
le sostanze medicamentose della farmacopea statunitense. Nel 1937, dopo una
breve stagione di controversie, i derivati della cannabis noti con il nome di marijuana
furono drasticamente banditi dall’uso terapeutico. Probabilmente in ragione dei
loro frequenti effetti tossici acuti, delle alterazioni della coscienza e della
difficoltà di dosare i principi attivi nelle preparazioni artigianali del
vegetale. Sicuramente ebbe un peso in questa decisione lo studio condotto tre
anni prima dall’autorevole psichiatra di New York, Walter Bromberg, di cui si
dirà più avanti.
Le popolazioni europee, tranne possibili eccezioni
sporadiche, non conobbero questo uso fino al XIX secolo quando, secondo una
narrazione tradizionale ripresa da numerose fonti, truppe dell’Esercito
napoleonico al ritorno dalla campagna d’Egitto portarono in patria preparazioni
delle foglie e di altre parti della pianta adatte all’assunzione mediante fumo
o ingestione.
Il “Club des Hachichins”, ossia dei fumatori di hashish, di
cui fecero parte Baudelaire, Gautier e Dumas padre, contribuì a diffondere tra
il 1850 e il 1860 in una capitale culturale come Parigi, sia l’uso dei derivati
della cannabis, sia una sorta di mitologia romanzesca che, intesa a suscitare
le attenzioni morbose del pubblico dei lettori, finì per conferire al vegetale
una fama sinistra che andava molto al di là delle sue reali potenzialità. Così
si attribuì all’hashish la responsabilità dei sintomi psicotici e della morte
di Baudelaire, trascurando la possibilità, sia pure con ruolo di concausa, della
sua abitudine alle libagioni alcoliche nella genesi dei primi e della sifilide
terziaria, di cui era affetto, nel sopraggiungere della seconda.
Forse la prima descrizione accurata ed attendibile degli
effetti della cannabis è quella che ne diede nel 1854 lo scrittore,
conferenziere e viaggiatore americano Bayard Taylor, dopo averla assunta
durante un viaggio in Egitto. A parte lo stile, che talvolta è decisamente
poetico-letterario, lo scritto sostanzialmente corrisponde nei contenuti ai
resoconti che si leggeranno nel secolo successivo. Taylor nota che, anche
durante la mezz’ora di massimo effetto, la coscienza non era stata mai
compromessa al punto di non consentirgli di studiare con precisione le
alterazioni dell’esperienza, o di portarlo a considerare reali le distorsioni
percettive. Tuttavia rimane impressionato dall’apparente mutamento della realtà
circostante: “Mentre queste sensazioni continuavano, gli oggetti da cui ero
circondato assunsero un’espressione strana e bizzarra […] scoppiai in un lungo
accesso di risate”. Lo scrittore americano -come molti ancora oggi- chiama
allucinazioni questi fenomeni, si tratta invece di illusioni. [1]
Per una prima descrizione clinica si deve giungere al 1934,
quando il celebre psichiatra newyorkese Walter Bromberg redasse una relazione
basata sull’osservazione e sul colloquio sistematico con numerose persone sotto
gli effetti di preparazioni della cannabis, oltre che sull’esperienza personale
dell’assunzione.
Nella relazione di Bromberg si legge: “Lo stato di
intossicazione inizia con un periodo di ansietà da dieci a trenta minuti dopo
aver fumato, durante il quale il soggetto a volte mostra paura di morire e
ansietà di natura vaga, associate a irrequietezza e iperattività. Nel giro di
alcuni minuti comincia a sentirsi più
calmo e subito mostra chiari segni di euforia; diventa loquace […] si rallegra
e si esalta […] comincia ad avvertire uno stupefacente senso di leggerezza agli
arti e al corpo”.
Un primo dato interessante è costituito dalla descrizione
degli effetti come intossicazione. Un altro aspetto che fa di questa relazione
un documento spesso citato, riguarda lo sforzo di obiettività di Bromberg: lo
psichiatra, pur comprendendo lo stato d’animo delle persone che osserva per
aver sperimentato personalmente uno stato mentale simile, veste i panni di un
osservatore neutro. Infatti, si legge: “Ride fragorosamente e senza controllo
[…] a volte senza il minimo stimolo”, poi prende decisamente le distanze: “il
rapido fluire di idee dà l’impressione di vivezza di pensiero e di
osservazione, ma è evidente la confusione quando tenta di ricordare quello che
aveva pensato”.
Bromberg propose una stima della durata degli effetti -da
due a quattro ore per il fumo, da cinque a dodici per l’ingestione- ritenuta valida negli ambienti medici fino a
tempi recenti.
In quello stesso periodo Robert Morrow, per conto della Commissione di ricerca istituita dal sindaco di New York Fiorello La Guardia, studiò gli effetti dei derivati della canapa sulle funzioni psicomotorie e sensoriali, mentre Florence Halperm evidenziò la riduzione delle prestazioni alle prove psicometriche, indagando gli effetti sulle funzioni intellettive.
Dopo l’epoca della “Commissione La Guardia”, con i progressi
compiuti nelle neuroscienze di base e cognitive, si entra nella storia
recente.
LA PIANTA. E’ importante
fornire qualche dato a proposito della pianta, perché i neurobiologi e i farmacologi
molecolari, che insieme costituiscono il numero maggiore di esperti che studia
questo argomento, se ne disinteressa considerando questi elementi di conoscenza
come semplici curiosità botaniche o farmacognosiche. Il risultato di questa
ingiustificata “sufficienza” è che spesso mancano nelle trattazioni su cui si
formano studenti e ricercatori riferimenti apparentemente banali, ma tuttavia
utili per una migliore collocazione culturale delle proprie conoscenze.
Innanzitutto bisogna notare che, se in genere si tende a
fare riferimento alla pianta di canapa da cui si ricavano i prodotti psicotropi
con il nome di Cannabis sativa, tuttavia in molti autorevoli scritti classici
si parla, ad esempio, esclusivamente di Cannabis indica (da cui l’uso di
“canapa indiana” come sinonimo di marijuana o hashish). Dunque, Cannabis
è il nome del genere, sativa, il nome della specie; indica
qualifica una sottospecie, pertanto sarebbe più corretto scrivere Cannabis
sativa indica. Ma sativa qualifica anche una sottospecie ritenuta
buona produttrice di resina cannabinoide, alla quale si deve il nome di Cannabis
sativa sativa.
Questa premessa è importante perché, da un canto, oggi la
maggior parte dei lavori scientifici che cita la pianta parla solo di Cannabis
sativa, potendo indurre chi non abbia preparazione al riguardo nell’errore di
ritenere che si tratti sempre di un unico tipo vegetale, dall’altra, è noto che
non tutte le varietà e le sottospecie vengono coltivate per gli stessi scopi.
A questo proposito vogliamo anche notare che l’importanza
sociale assunta dall’assunzione di sostanze psicotrope in generale, ha
moltiplicato gli articoli giornalistici, i servizi televisivi, gli scritti sul
web, in cui la focalizzazione su Cannabis sativa sembra lasciare
intendere che esista un solo tipo di canapa, quello da cui si ricava una
sostanza psicotropa che i consumatori vorrebbero si adoperasse in terapia. Pertanto
non è superfluo precisare che esistono altre piante simili da cui si ricavano
fibre e medicinali, un esempio è la Canapa del Canada che, in passato
classificata tra le Apocinee, è usata per la produzione di fibre per tele da
imballaggio e corde, ed è fonte di composti cardiotropici ad azione digitalica.
cellular organisms; Eukaryota; Viridiplantae;
Streptophyta;
Streptophytina; Embryophyta; Tracheophyta; Euphyllophyta; Spermatophyta; Magnoliophyta; eudicotyledons; core eudicotyledons; rosids; eurosids I; Rosales; Cannabaceae; Cannabis.
Una classificazione più precisa, che soddisfa vari criteri
tassonomici, è quella adottata dall’Integrated Tassonomic Information System
che riportiamo qui di seguito.
Kingdom |
Plantae -- Planta,
plantes, plants, Vegetal |
|
|
|
Subkingdom |
Tracheobionta -- vascular
plants |
|
|
Division |
Magnoliophyta -- angiospermes,
angiosperms, flowering plants, phanérogames, plantes à fleurs, plantes à
fruits |
|
|
Class |
Magnoliopsida -- dicots,
dicotylédones, dicotyledons |
|
|
Subclass |
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|
Order |
|
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Family |
Cannabaceae -- hemp |
|
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Genus |
Cannabis L. -- hemp |
|
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Species |
Cannabis sativa L. -- grass, hashish, hemp,
marijuana, Mary Jane, pot |
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Direct Children: |
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Variety |
Cannabis
sativa var. sativa L. -- marijuana |
|
|
Variety |
Cannabis
sativa var. spontanea Vavilov -- marijuana |
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Subspecies |
Cannabis sativa ssp. indica (Lam.)
E. Small & Cronq. -- grass, hashish, hemp, marijuana, Mary Jane, pot |
|
|
Subspecies |
Cannabis sativa ssp. sativa L.
-- grass, hashish, hemp, marijuana, Mary Jane, pot |
|
Cannabis sativa è una
pianta erbacea in passato classificata tra le Moracee a stelo dritto[2],
alta fino a 5 m., che cresce spontaneamente in molte parti del mondo, dove è
coltivata per ottenerne fibre tessili e
preparazioni impiegate a scopo medicamentoso o psicotropo. E’ una specie dioica
in cui gli organi maschili e quelli femminili si trovano in due piante diverse,
dette per questo maschio e femmina. Le sostanze attive sono contenute in una
resina giallo-dorata che copre le infiorescenze e le foglie apicali della
pianta femminile matura e che, nel suo profumo, ricorda la menta.
Le fibre si ottengono mediante macerazione; con questo
processo si separano con la gramola dalla parte legnosa (canapule): le fibre sono
usate per tessuti e cordami, i canapuli per bruciare, per farne carta da
imballaggio, carbone, polvere da sparo. I semi, rotondi, lisci, duri e dal
nucleo tenero (canapuccia) si impiegano come becchime, gradito a molti uccelli
nostrani, e per estrarne l’olio.
I prodotti psicotropi si trovano nelle foglie e in tutte le
parti della pianta, ma sono concentrati specialmente nella sommità fiorita
della pianta femmina, da cui trasuda la resina che ne contiene la massima quantità;
in genere estratti da tipi locali della pianta prescelti per questo scopo: Cannabis
sativa sativa, Cannabis sativa indica, ecc.
La resina, che può essere raccolta separatamente, è nota
come hashish nel Medio Oriente e come
charas
in India. Il termine marijuana è usato nel mondo
occidentale per indicare una mescolanza di foglie e di infiorescenze femminili
della canapa indiana. Negli Stati Uniti, si è definito per legge che il termine
marihuana (o marijuana) si possa impiegare in ogni trattazione ufficiale per
indicare tutte le parti e le preparazioni della pianta, inclusa la resina pura,
più spesso definita hashish. Questa decisione, che ha fatto prevalere le
ragioni del pragmatismo su quelle di una semantica che riflettesse la realtà
dei prodotti presenti sul mercato, fu avversata da molti; fra questi, lo
psichiatra Lester Grinspoon di Harvard ha sostenuto per decenni una distinzione
che ancora è possibile riscontrare negli usi locali e, pertanto, riportiamo di
seguito in sintesi.
Si conoscono almeno tre tipi di preparazioni diverse. La qualità più
economica e meno efficace, chiamata “bhang”, si ricava dagli apici di piante
selvatiche ed ha un basso contenuto di resina. Il “ganja”, preferito dagli
Indù, si ottiene dalle cime fiorite e dalle foglie di piante selezionate da
esperti e coltivate con cura, e contiene la maggiore quantità di resina. Il
terzo tipo, chiamato in India “charas”, è costituito dalla resina pura
raschiata dalla cima delle piante mature e raccolta con perizia per evitarne la
contaminazioni con elementi inerti. Solo questa preparazione merita il nome di
“hashish”, dalle 5 alle 8 volte più efficace della migliore “marijuana”, ovvero
le preparazioni contenenti foglie.
La diffusione come sostanza illecita ha moltiplicato le definizioni
gergali con le quali la si indica, ad esempio: weed, grass, pot, tea, mary
jane, in America e in Gran Bretagna; erba, fumo e simili in Italia; con
reefers o joint sono indicate negli USA le sigarette che la
contengono, e molti altri vocaboli sono stati impiegati per denominare i cibi,
particolarmente i dolciumi, in cui viene aggiunta.
Attualmente negli USA si è generalizzato l’uso, tanto nelle
trattazioni scientifiche quanto in quelle non specialistiche o informative, del
termine “cannabis”, per indicare tutte le forme in cui si ottengono derivati da
impiegare a scopo psicotropo. A questo comodo impiego, adottato anche
dall’inglese Smith nel suo autorevole manuale di neurobiologia molecolare, ci
siamo adeguati in questa scheda introduttiva.
DATI FARMACOLOGICI. La
composizione chimica dei prodotti ricavati dalla canapa è estremamente
complessa e non completamente nota, come nel caso di molti derivati di
organismi vegetali. Tuttavia, sono stati riconosciuti e studiati numerosi
composti, chimicamente caratterizzati in prevalenza come alcoli o acidi, fra
questi elenchiamo i più noti: cannabigerolo, cannabinolo, cannabidiolo, isomeri
del tetraidrocannbinolo, cannabicromene, acido cannabinolico, acido cannabidiolico,
acido cannabigerolico, isomeri dell’acido tetraidrocannabinolico.
Già negli anni ’40 si stabilì che le molecole psicoattive,
anche a dosi relativamente basse, erano gli isomeri del tetraidrocannabinolo
(THC). Negli anni ’70 si ritenne che l’isomero più attivo fosse il composto Δ1THC.
Solo nei due decenni successivi gli studi farmacodinamici riconobbero il Δ9THC
come il composto più efficace.
Anche i risultati della sperimentazione hanno a lungo
risentito delle scarse conoscenze. Ad esempio, la dose letale per gli animali
si riferiva ad unità di prodotto e non di molecola; così si diceva che per
determinare la morte di un gatto fossero necessari, per via orale, 3 grammi di
charas, 8 grammi di ganja o 10 grammi di bhang per Kg di peso corporeo. Si
comprende come queste stime fossero ritenute insoddisfacenti dagli stessi
farmacologi e “poco scientifiche” dai ricercatori.
Gli effetti sugli animali di basse dosi di queste miscele di
composti, difficilmente comparabili fra loro, hanno fornito a lungo risultati
contraddittori. Viceversa le dosi più alte facevano invariabilmente riscontrare
attivazione del sistema nervoso autonomo con vomito, diarrea, brividi febbrili
e manifestazioni associate in vari organi ed apparati, e sintomi del sistema
nervoso somatico, con incoordinazione psiconeuromotoria.
Sono da tempo allo studio farmaci e specialità farmaceutiche
basate su molecole derivate dalla cannabis per sfruttarne a scopo terapeutico
le proprietà oressizzanti, l’azione su nausea e vomito e gli altri effetti
positivi noti. In particolare la ricerca si è concentrata sul Δ9THC
e sul cannabidiolo (CBD). Sono state sperimentate quattro formulazioni:
1)
Δ9THC (high)
2)
Δ9THC-CBD (narrow
ratio)
3)
Δ9THC-CBD (broad ratio)
4)
CBD (high)
Le forme farmaceutiche studiate riguardano tre vie di
somministrazione: compresse sublinguali, spray sublinguali e spray per
inalazione. Il nome approvato per queste specialità è SATIVEX[3].
Delta-9-Tetraidrocannabinolo (Δ9THC) o
Dronabinolo. Al Δ9THC ottenuto
per via sintetica si è dato il nome di dronabinolo. Chimicamente la molecola, costituita da tre anelli
benzenici caratterizzati da tre gruppi metilici, un idrossile ed un C5H11,
ha formula grezza C21H30O2 e si denomina come
(6aR-trans)-6a,7,8,10a-tetraidro-6,6,9-trimetil-3-pentil-6H-dibenzo[b,d]piran-1-olo.
Il dronabinolo si presenta come un olio resinoso giallo chiaro, insolubile in acqua, che è viscoso a temperatura ambiente e si indurisce per effetto della refrigerazione. Il pKa è 10,6 e ha un coefficiente di ripartizione octanolo/acqua 6.000 : 1 a pH = 7.
In tempi recenti il Δ9THC, dopo il regolare
periodo di sperimentazione tossicologica, farmacocinetica, farmacodinamica e
clinica, ha ottenuto la registrazione come farmaco-medicamento (MARINOL) e da
qualche anno è a disposizione dei medici negli USA e in altri paesi. Questa
preparazione farmaceutica è costituita da capsule di gelatina morbida
contenenti il farmaco nelle tre dosi in cui lo si è reso disponibile: 2,5/5/10
mg.
CONCLUSIONI. Avevamo
dedicato un paragrafo di questa scheda alla discussione degli effetti
psicotropi ed all’annoso e logoro dibattito politico-mediatico, fortemente ideologizzato,
sull’uso dei derivati della cannabis. Si è poi deciso di rinunciarvi, rinviando
le nostre considerazioni alla discussione che si terrà dopo le vostre relazioni,
anche perché crediamo che lo stato attuale delle conoscenze per molti versi
parli da solo.
Vogliamo ringraziare per la consulenza, i consigli o il materiale scientifico messoci a disposizione: C. U. M. Smith, N. Cardon, M. Ergetova, D. Richmond, G. Rossi, J. Montgomery, D. Madison.
Per il paragrafo sui cenni storici ringraziamo M. Lanfredini, per i documenti sullo “Studio Bromberg” e sulla “Commissione La Guardia” si ringrazia I. Floriani.
[1] Infatti, in psicopatologia si definisce allucinazione
la percezione in assenza di oggetto (inteso nel senso più estensivo, anche come
stimolo o fenomeno); quando, invece, si è in presenza dell’oggetto e lo si percepisce
in maniera distorta, si parla di illusione (uditiva, visiva, gustativa,
olfattiva, tattile, ecc.). Tuttavia, queste dispercezioni non sono elemento
connotativo dell’assunzione di cannabis, mentre sono tipiche degli
psicodislettici (in passato chiamati “allucinogeni”) come l’LSD, il DMT, la
mescalina, il peyotl, la psilocibina e i composti sintetici affini di nuova
sintesi.
[2] Il genere Cannabacee è stato incluso tra le Moracee (H. A.
Gleason, 1968), era stato Fermald, fin dal 1950, a porlo in una famiglia
separata, quella delle Cannabinacee.
[3] A seguito
dell’accordo intercorso fra la Bayer che ha ottenuto i diritti per la
commercializzazione in Europa e la GW-Pharmaceuticals.