BM&L-ITALIA, FIRENZE 2010

 

Dolore cronico e danno neurodegenerativo

 

 

 

 

PREMESSA. Questo scritto è basato sulla trascrizione della registrazione di una relazione orale intitolata “Il dolore come malattia neurodegenerativa”, tenuta il 26 novembre 2009, poi ripartita in otto parti e pubblicata sul sito web della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia (www.brainmindlife.org) dal 28 novembre 2009 al 30 gennaio 2010. Correzioni, revisioni ed integrazioni sono state apportate nel luglio 2010. In appendice al testo, ritenendo di fare cosa grata al lettore si è aggiunta la recensione di un lavoro che individua una possibile nuova classe di analgesici agenti sul sistema oppioide.

A partire dagli anni Ottanta, Giuseppe Perrella ha dedicato numerosi studi di argomento neuroscientifico, psicologico e filosofico all’esperienza del dolore e, da quella elaborazione culturale che ha avuto il suo naturale proseguimento nelle riflessioni sviluppate in questi anni con i gruppi di studio della Società, nell’occasione della relazione ha tratto citazioni e spunti sui molteplici significati e sui valori diversi assunti dalla sofferenza individuale e dalle forme del patire nelle società contemporanee, impiegandoli per collocare il dolore in una più ampia dimensione culturale ed umana. Per espressa volontà dell’autore, tale argomentazione introduttiva è stata eliminata, rendendo il testo più omogeneo, nella sua natura di discussione basata su una rassegna di lavori scientifici, ed accessibile anche a coloro che non abbiano competenze specialistiche in ambito filosofico e in altri  campi delle scienze umane.

 

(Ludovica R. Poggi, Firenze, 9 luglio 2010).

 

 

INTRODUZIONE. Da tempo è noto che il dolore cronico può causare disturbi psichici che vanno da sindromi lievi caratterizzate da irritabilità, alterazioni del sonno ed astenia, fino a quadri gravi con sintomatologia depressiva, disturbi della sfera emotiva, condizionamento del pensiero e interessamento cognitivo espresso in termini di deficit dell’attenzione e della capacità di concentrazione. Recenti ricerche stanno definendo con precisione sempre maggiore la base biologica di questo effetto, rilevando alterazioni funzionali in gruppi neuronici specificamente implicati nel pain processing e, soprattutto, identificando lesioni di strutture dell’encefalo che consentono di paragonare lo stato di dolore cronico protratto a una malattia neurodegenerativa.

 

IL DOLORE E LA SOFFERENZA CRONICA. Lo studio scientifico del dolore si basa su due importanti elementi definiti e confermati sperimentalmente: la sua natura di esperienza psichica e l’origine in un evento lesivo, anche se solo di entità microscopica. Una concezione bene espressa e sintetizzata dalla definizione dell’International Association for the Study of Pain (IASP): una spiacevole esperienza sensoriale ed emozionale associata a danno tessutale attuale o potenziale o descritta nei termini di tale danno[1].

La risposta fisiologica al dolore è avviata da stimoli in grado di attivare le terminazioni di una o più classi di neuroni recettivi del dolore (nocicettori)[2] che trasmettono l’informazione sensitiva principalmente attraverso il glutammato e i neuropeptidi ai neuroni del corno posteriore del midollo spinale, da cui originano cinque vie ascendenti al talamo ed alla corteccia cerebrale: 1) Spino-Talamica, 2) Spino-Reticolare, 3) Spino-Mesencefalica, 4) Spino-Ipotalamica, 5) Cervico-Talamica. Ciascuno di tali tratti presenta caratteristiche fisiologiche peculiari. I nuclei talamici mediano l’invio dell’informazione alla corteccia cerebrale, che direttamente partecipa all’elaborazione delle sensazioni dolorose. A queste vie ascendenti corrisponde una rete distribuita di popolazioni neuroniche costituenti nel loro insieme il sistema analgesico endogeno, del quale si riconoscono alcune sedi principali nel grigio periacqueduttale, nel nucleo del rafe magno, in parti della formazione reticolare del bulbo e del mesencefalo, inclusa la regione parabranchiale[3]. Proseguendo in direzione cefalica vi è come una continuazione del sistema di controllo del dolore in aree proencefaliche che, stimolate, sono in grado di inibire le afferenze nocicettive del fascio spino-talamico: il grigio periventricolare, il nucleo ventroposterolaterale del talamo, l’area somestesica primaria della corteccia post-centrale e le aree corticali parietali posteriori. Non è superfluo ricordare che la stimolazione diretta del cervello produce, in generale, analgesia.

Per approfondire alcuni aspetti che possono aiutarci a comprendere meglio quanto accade in condizioni patologiche, ritorniamo alle prime fasi della percezione del dolore, in particolare ai nocicettori. Classicamente le cellule recettrici del dolore sono distinte in nocicettori termici, nocicettori meccanici e nocicettori polimodali[4].

Nocicettori termici. Sono neuroni di piccolo diametro con fibre mieliniche di tipo Aδ a conduzione rapida: lo stimolo viene condotto a velocità variabili da 5 a 30 m/sec. L’attivazione si ha oltre il livello-soglia delle temperature basse e di quelle alte, rispettivamente per T < 5 °C e T > 45 °C.

Nocicettori meccanici. La caratteristica principale di questi neuroni sensitivi, detti anche meccanocettori nocicettivi, consiste nella tipologia di stimoli in grado di attivarli, ossia percussione, pressione, trazione, torsione o spremitura dei tessuti, di entità superiore a quella prodotta da stimoli endogeni, spontanei e, in genere, fisiologici. Anche questi neuroni presentano sottili fibre mieliniche Aδ con una velocità di conduzione di 5-30 m/sec.

Nocicettori polimodali. Rispondono alle temperature estreme (alte e basse), a stimoli nocicettivi diversi e contemporanei, a tutti gli stimoli dei meccanocettori nocicettivi, a varie fonti di dolore chimico (chemiocettori del dolore). Nella massima parte dei casi sono neuroni di diametro piccolo con fibre C amieliniche conducenti a velocità bassa o bassissima, ma sempre inferiore a 1 m/sec.

A queste tre popolazioni di cellule sensitive, spesso attive in sinergia o in successione nel rendere i diversi aspetti dell’esperienza nocicettiva[5], se ne può aggiungere una quarta presente nei tessuti viscerali: i nocicettori silenti. Questi neuroni, a differenza dei precedenti, non sono ordinariamente attivati da stimoli dannosi, ma presentano un notevole abbassamento della soglia di scarica in corso di infiammazione e per effetto di vari stimoli chimici; perciò si ritiene che contribuiscano allo sviluppo dell’iperalgesia secondaria e della sensibilizzazione centrale.

Le informazioni trasmesse dai nocicettori al midollo spinale sono subito sottoposte ad una sorta di vaglio da parte di popolazioni specializzate di cellule poste all’ingresso del sistema nervoso centrale: l’equilibrio fra afferenze nocicettive e non nocicettive primarie può modulare il dolore. Il possibile meccanismo di questo “filtro al varco” fu per la prima volta illustrato da Melzack e Wall nel 1965, secondo una concezione tuttora valida e nota con il nome di Gate Control Theory[6].

Qui di seguito, in estrema sintesi, vediamo come questa teoria spiega l’originarsi del dolore da uno squilibrio di un sistema di controllo che ha una chiave di volta negli interneuroni presenti nella sostanza gelatinosa di Rolando del corno posteriore del midollo spinale; queste cellule internuciali sembrano infatti esercitare, attraverso l’inibizione presinaptica di tutte o quasi tutte le fibre in entrata, un controllo tonico sull’accesso degli impulsi periferici alle vie ascendenti[7]. Le fibre afferenti di grande diametro, come quelle provenienti dai corpuscoli tattili, sono eccitatorie sia per i grandi neuroni della lamina IV dalla quale origina il tratto spino-talamico, sia per gli interneuroni della sostanza gelatinosa; in contrasto, le fibre amieliniche sottili sono eccitatorie per le cellule del tratto, ma inibitorie per gli interneuroni. Considerata la tonica inibizione presinaptica esercitata dagli interneuroni della sostanza gelatinosa, si comprende come in questo sistema una bassa attività delle sottili fibre afferenti amieliniche, inibendo gli interneuroni, sia in grado di aprire il varco ai neuroni del tratto spino-talamico nella lamina IV, così che possano ricevere flussi di correnti depolarizzanti dalle fibre mieliniche di grande calibro che trasmettono tutte le principali sensazioni non protopatiche. Scariche di alta frequenza di queste fibre sensitive possono essere trasmesse alla lamina IV per un certo tempo, ma poi la trasmissione cessa perché riprende l’attività degli interneuroni che richiudono il varco.

Se le fibre amieliniche, invece della loro ordinaria bassa attività corrispondente alla tonica inibizione interneuronica, manifestano un funzionamento di elevata intensità con un vero e proprio bombardamento di impulsi sui neuroni della lamina IV, si determinerà un persistente stato di disinibizione e si avrà la scarica di cellule di alta soglia - normalmente silenti nella lamina IV - che trasmettono gli impulsi nocicettivi ai centri superiori di elaborazione del dolore. Il dolore, perciò, si produce per effetto di uno sbilanciamento nel sistema di controllo in entrata, conseguente ad un’attività eccessiva della componente amielinica.

Il grado di sensibilità complessiva di questo sistema di controllo segmentale delle afferenze, sembra essere finemente regolato dalla rete discendente e prevalentemente sovraspinale di neuroni che, come abbiamo precedentemente notato, costituisce un sistema analgesico endogeno. Questo articolato insieme di cellule, il cui ruolo fisiologico sembra consistere in una regolazione che va oltre la nocicezione ed investe altre componenti dell’ingresso sensitivo, può essere distinto in tre sezioni interconnesse: mesencefalica, rombencefalica e spinale.

I neuroni mesencefalici, presenti nel grigio periacqueduttale, nel nucleo del rafe dorsale e in parte del nucleo cuneiforme, sono caratterizzati da neuromediatori quali la serotonina, il GABA, la sostanza P, la CCK, la neurotensina, le dinorfine[8] e le encefaline[9]. Il grigio periacqueduttale riceve fibre, oltre che dai nuclei reticolari segmentali, dalla corteccia somatosensitiva frontale, dalla corteccia del giro del cingolo, dall’amigdala e dall’ipotalamo. Si è data importanza alle afferenze ipotalamiche, perché sono organizzate in fascicoli separati i cui terminali contengono istamina, LHRH, ACTH, γ-MSH, vasopressina, ossitocina, angiotensina II ed endorfine[10].

Le fibre efferenti dalle aree mesencefaliche del sistema discendente di controllo vanno in parte ai centri rombencefalici, in parte raggiungono direttamente il midollo spinale.

La componente rombencefalica del sistema discendente di controllo del dolore ha, presumibilmente, nel nucleo magno del rafe e nella colonna reticolare mediale un importante centro di mediazione multipla. E’ stato scoperto che in questa sede i neuroni contengono spesso due o tre neuromediatori[11] che sono in prevalenza serotonina, TRH, CCK, sostanza P, encefaline e dinorfine. Le fibre discendenti bulbo-spinali attraversano il nucleo del tratto spinale del trigemino e la sua prosecuzione, ossia la sostanza gelatinosa di Rolando che, come è noto, si estende per tutta la lunghezza del midollo spinale con neuroni che contengono neuromediatori quali GABA, sostanza P, neurotensina, encefaline e dinorfine.

Queste nozioni aiutano a capire con quali processi le informazioni provenienti dalla periferia inducono riflessi semplici o risposte encefaliche più articolate che risultano protettive per l’organismo.

Il valore positivo in chiave evoluzionistica della risposta alla nocicezione non ha bisogno di essere illustrato: basta pensare all’utilità dei riflessi indotti da stimoli nocivi, per evocare una gamma estesa di casi e circostanze in cui la sensazione spiacevole determina un vantaggio per l’organismo che la prova. E, passando da considerazioni generali alla nostra realtà umana, non possiamo dimenticare che il dolore ha una funzione di segnale che richiama la nostra attenzione cosciente, consentendoci di non limitarci come gli animali all’impiego di automatismi protettivi, ma di intervenire secondo logica, ragione e conoscenza.

Tuttavia, non sempre la nocicezione costituisce un efficace innesco di riflessi o un utile sintomo-segnale che consente di individuarne ed eliminarne la causa, perché le vie di trasmissione del dolore possono attivarsi in maniera anomala. In condizioni fisiologiche i nocicettori sono selettivamente attivati da stimoli forti, in grado di superare una soglia notevolmente più alta di quella dei recettori per la sensibilità tattile epicritica e propriocettiva cosciente. In alcuni casi, invece, la nocicezione è provocata da stimoli innocui, quali semplici movimenti delle articolazioni, pressioni, carezze o lievi tocchi ordinariamente trascurati o perfino avvertiti come piacevoli. A questa condizione di anomala reattività, che è da tempo oggetto di studio sperimentale, si è dato il nome di allodinìa. Nelle persone che ne sono affette può essere causa di sofferenza anche il semplice indossare abiti stretti, passeggiare in una giornata ventosa o fare una doccia, perché la pressione del tessuto, del vento o dell’acqua sono sufficienti ad attivare i neuroni nocicettivi. Un caso a parte è rappresentato dal dolore associato al fenomeno dell’arto fantasma, per il quale rimandiamo ad una trattazione specifica[12].

Altre volte accade che un episodio algico si verifichi senza una causa attuale, ma possa essere spiegato mediante una ricostruzione anamnestica: neuropatie pregresse senza apparenti conseguenze possono causare il sintomo a distanza di tempo. Ad esempio, pazienti che hanno sofferto un danno nervoso per una neuropatia diabetica, possono avvertire improvvisamente un bruciore intenso mentre sono tranquillamente seduti in poltrona senza alcuno stimolo fisico o psichico che funga da innesco o li disturbi. 

In tutti questi casi, il dolore non segnala l’esistenza di un danno tessutale o di un pericolo per l’organismo, ma deriva da alterazioni o variazioni funzionali di costituenti delle vie dolorifiche e, pertanto, può essere considerato un disturbo in sé.

Si è cominciato a comprendere l’origine di queste forme anomale di dolore all’inizio degli anni Ottanta, con gli studi di Clifford Wolff e colleghi, che documentarono alterazioni nella risposta dei nocicettori come conseguenza di lesioni prodotte a scopo sperimentale[13]. Si vide, ad esempio, che il danno ad una zampa di un ratto determinava un’amplificazione del segnale inviato dai nocicettori innervanti la cute ai neuroni del midollo spinale, per effetto di due meccanismi:

1) accentuazione della risposta;

2) abbassamento della soglia dei neuroni nocicettivi, con attivazione per stimoli deboli, ordinariamente incapaci di indurre un potenziale d’azione.

Su questa base si è ipotizzato che le molecole infiammatorie e gli ormoni prodotti per effetto del danno, in alcune condizioni possono sensibilizzare i nocicettori rendendoli iperattivi, così da causare dolore cronico o sensazioni dolorose anomale per stimoli innocui. Oggi è noto che queste molecole sono responsabili dei dolori che si avvertono il giorno dopo uno sforzo fisico come quello che si compie durante una gara sportiva o, come può accadere a ciascuno di noi, semplicemente portando una valigia molto pesante o facendo sforzi come quando si spostano dei mobili.

In tutti questi casi, tutte le fibre sensitive diventano più eccitabili. All’ipereccitabilità delle fibre non lese si è attribuita importanza nella genesi del dolore cronico da lesione nervosa, perché evidenze sperimentali hanno dimostrato che le fibre direttamente danneggiate quasi sempre degenerano.

Oltre a diventare più eccitabili, i neuroni che hanno subito un danno possono talvolta prendere a segnalare spontaneamente. All’origine di questa attività non reattiva vi può essere una lesione pregressa dei nervi periferici[14] causata da traumi, da malattie come il diabete e le neoplasie, o dagli effetti tossici dell’alcool e di altre sostanze psicotrope. La scarica spontanea dei nocicettori, spesso protratta e resistente ai più comuni trattamenti antalgici, si trasmette lungo le vie ascendenti causando le citate algie improvvise ed apparentemente senza causa. Spesso questo funzionamento anomalo permane a distanza di un tempo molto lungo dalla guarigione del danno. Tale riscontro ha indotto molti ricercatori a compiere ogni sforzo per definire la base molecolare di una persistenza non giustificata dai processi che normalmente attivano le vie nervose nocicettive e, recentemente, è stata individuata una base per questa attività ectopica di basso livello nei canali del sodio regolati dal voltaggio[15].

Questi canali ionici sono fondamentali per la proprietà di trasmissione dei messaggi elettrici da parte delle membrane neuroniche e, con il loro numero e la loro frequenza di apertura e chiusura, incidono sul grado di sensibilità e di eccitabilità di un neurone. Molti dati indicano che negli stati di dolore cronico queste proteine-canale si addensano nelle aree della membrana dove hanno un ruolo di maggior rilievo, ossia presso i terminali cutanei dei neuroni e lungo tutto il nervo afferente, verosimilmente rendendo più reattive le cellule nocicettive[16].

Nel 2003 Porreca e i suoi colleghi impiegarono molecole fluorescenti per visualizzare il canale del sodio Nav1.8 nelle cellule nervose periferiche di ratto, dopo un tipo di danno sperimentale che induce dolore cronico. In quegli esperimenti si evidenziò un rimodellamento molecolare delle membrane nervose, caratterizzato da un accumulo di Nav1.8 in prossimità della sede del danno[17]. Questo studio per la prima volta ha evidenziato che una lesione induce l’invio di un numero enorme di questi canali del sodio dal soma neuronico, posto nel ganglio spinale, alla periferia estrema lungo il ramo del nocicettore. Questa redistribuzione - più volte verificata da esperimenti successivi - sembra avere un ruolo critico nella patogenesi del dolore neuropatico; infatti si è accertato che, impedendo la produzione dei canali Nav1.8 da parte dei neuroni, la sofferenza indotta sperimentalmente scompare, consentendo ai roditori di ritornare al comportamento normale precluso dalla nevralgia.

Studi successivi hanno trovato elementi che supportano l’esistenza di un simile trasporto di canali ionici del sodio anche nell’uomo, in particolare in pazienti in cui il danno neuropatico aveva causato dolore persistente.

Un altro filone della ricerca che mira ad individuare l’origine del dolore cronico e delle forme anomale di dolore, ha indagato la base cellulare di questi sintomi studiando le popolazioni neuroniche del corno posteriore del midollo spinale. Un’acquisizione di importanza decisiva in questo campo è stata ottenuta nel 1999 da un gruppo dell’Università del Minnesota  guidato da Patrick W. Mantyh. I ricercatori hanno individuato le cellule che trasmettono l’impulso cronico lungo le vie dolorifiche dal possesso dei recettori necessari alla segnalazione, impiegando un metodo che funziona come un cavallo di Troia: hanno legato una tossina al neurotrasmettitore così che questo, quando interagiva col recettore, distruggeva il neurone ricevente. In pratica, al trasmettitore nocicettivo sostanza P è stata associata la saporina, realizzando la citotossina sostanzaP-saporina che è andata ad intercettare  selettivamente i neuroni esprimenti in superficie i recettori per il peptide[18].

In tal modo un insieme ristretto e specifico di cellule, corrispondente all’1-3% del totale che costituisce il corno dorsale del midollo spinale, è stato eliminato, con la conseguente scomparsa di tutti i segni di dolore cronico causato dai due tipi di danno sperimentale inferto, ossia infiammatorio e neurolesivo[19]. Negli animali di controllo, naturalmente, il dolore persisteva. La specificità della sottopopolazione neuronica individuata con la tossina è confermata dal fatto che la sua ablazione non compromette la percezione del dolore primario. Le evidenze sperimentali consentono dunque di ritenere che le cellule individuate da Mantyh e colleghi sono responsabili dei processi che sostengono nel tempo il perdurare delle sensazioni dolorose e sono diverse da quelle ordinariamente implicate nella risposta nocicettiva.

Individuati i neuroni responsabili, l’attenzione dei ricercatori si è concentrata sui meccanismi che consentono a queste cellule di sostenere cronicamente una sofferenza e, ben presto, si sono ottenute chiare evidenze che in questi casi si attiva un potenziamento sinaptico di lungo termine (LTP), un processo che si ritiene costituisca la base cellulare di vari tipi di memoria nel sistema nervoso centrale e che consiste nel perdurare di un’attività sinaptica molto tempo dopo la cessazione dello stimolo iniziale.

Accertato che il dolore cronico può essere interpretato come una particolare forma di memoria, si è cercato di comprendere le peculiarità di questa memorizzazione nella speranza di risalire alle sue cause. Uno studio condotto nel 2006 da Jürgen Sandkühler dell’Università Medica di Vienna, ha fornito elementi illuminanti in tal senso, rivelando che, sebbene l’LTP nel cervello richieda un input di alta frequenza, ossia di 100 Hz o superiore, la stimolazione di bassa frequenza proveniente da nervi lesi nei ratti poteva generare un LTP in alcuni tipi di neuroni del corno dorsale.

Vorrei ora proporvi il modo in cui Nicole Cardon ed io nel 2006 abbiamo recensito il lavoro del gruppo di Ikeda che dimostrava l’esistenza di un processo di amplificazione in corrispondenza della prima sinapsi del midollo spinale[20]. Il titolo era “Dolore: un amplificatore nel midollo spinale”, ecco qui di seguito il testo.

 

L’aumento di sensibilità al dolore, che prende il nome di iperalgesia, origina da meccanismi periferici e centrali. Si può avere una diretta sensibilizzazione dei nocicettori per effetto di un’infiammazione che causa il rilascio, da parte delle cellule danneggiate, di composti quali bradichinina, istamina, prostaglandine, leucotrieni, acetilcolina, serotonina e sostanza P. Anche per effetto di ripetuti stimoli meccanici, che in forma isolata si limitano ad attivare i meccanocettori, si può avere una sensibilizzazione dei nocicettori, verosimilmente sulla base di un riflesso assonico. La componente centrale dell’iperalgesia, detta anche sensibilizzazione centrale, ha ricevuto le maggiori attenzioni da parte dei ricercatori, soprattutto nella prospettiva di prevenirne lo sviluppo. A seguito di una continua e rilevante stimolazione dolorifica che comporta la scarica a ripetizione di glutammato dalle fibre dolorifiche C, la risposta dei recettori NMDA dei neuroni delle corna posteriori del midollo spinale genera un potenziamento di lungo termine (LTP) simile a quello che si ha nell’ippocampo per effetto di apprendimento.

Si considera nozione acquisita, riportata dai trattati di neuroscienze più autorevoli ed aggiornati, che un LTP delle sinapsi fra gli assoni delle fibre C e i neuroni di proiezione spinali delle vie del dolore costituisca il meccanismo centrale dell’iperalgesia. D’altra parte vari studi recenti, tutti condotti mediante l’impiego della stimolazione di alta frequenza (HFS) delle fibre afferenti per l’induzione del potenziamento sinaptico, sembrano confermare che l’LTP generato nel midollo spinale sia responsabile dell’iperalgesia.

Questa genesi dell’aumento di sensibilità al dolore è stata però messa in dubbio e, recentemente, è divenuta oggetto di controversia. In particolare, è stato osservato che il caso più frequente di iperalgesia è costituito dall’infiammazione dei tessuti periferici che causa scariche di bassa frequenza delle fibre afferenti, dalle quali origina la forma opposta di adattamento plastico della sinapsi, ovvero la depressione di lungo termine (LTD).

Dunque, l’iperalgesia da infiammazione non è sostenuta da LTP? O in qualche altro modo dalle scariche di bassa frequenza si giunge ad un LTP invece che ad un LTD?

Il problema è stato affrontato dal gruppo di Ikeda iniettando un marker fluorescente retrogrado in due aree di massiccia proiezione delle vie dolorifiche, la parabrachiale (PB) e il grigio periacqueduttale (PAG), e realizzando sezioni trasverse spinali di preparati in cui i due tipi di neuroni delle corna dorsali proiettanti a PB e PAG erano facilmente identificabili e fra loro distinguibili (Synaptic amplifier of inflammatory pain in the spinal dorsal horn. Science 312, 1659-1662, 2006).

I ricercatori hanno cercato di sottoporre al vaglio sperimentale le due condizioni fisiologiche caratterizzate da stimoli di alta e bassa frequenza, per studiarne gli effetti sulle sinapsi delle vie dolorifiche.

La stimolazione elettrica di alta frequenza (HFS) delle fibre afferenti primarie, che è stata erogata ad un livello di intensità sufficiente ad attivare le fibre amieliniche (in gergo: “C-fibre strength”), ha generato un LTP nelle sinapsi fra i terminali assonici dei neuroni a fibre C e i neuroni riceventi dell’area PB, confermando tutte le precedenti osservazioni. L’HFS non ha prodotto, però, lo stesso risultato sulle sinapsi con i neuroni PAG: in questo caso non si registrava alcuna modificazione della forza sinaptica.

La stimolazione di bassa frequenza (LFS), nello spettro dei valori tipici delle scariche delle fibre C in corso di infiammazione, non ha prodotto effetti sulla forza sinaptica nell’area PB, invece la stimolazione LFS alla C-fibre strength induceva LTP nelle sinapsi dei neuroni PAG.

L’espressione delle due opposte forme di adattamento sinaptico, ovvero il potenziamento e la depressione di lungo termine, è determinata dal livello e dalla durata dell’innalzamento del calcio intracellulare nel neurone post-sinaptico: l’HFS produce un elevato picco di calcio che si accompagna allo sviluppo di LTP, al contrario l’LFS genera un incremento molto modesto del calcio citoplasmatico, cui segue LTD.

Nei neuroni PAG, in cui l’LFS generava LTP, l’incremento del calcio citoplasmatico per lo stimolo di bassa frequenza non era minimo come di norma, ma raggiungeva livelli sufficienti a determinare il potenziamento protratto.

Impiegando dei chelanti del calcio per abolirne il picco intracellulare, l’LFS non era più in grado di indurre LTP nei neuroni PAG. Bloccando il rilascio del calcio dei depositi intracellulari mediante i recettori dell’inositolo-1,4,5-trifosfato, addirittura l’LTP si convertiva in LTD.

Ikeda e i suoi colleghi hanno allora impiegato, in ratti con midollo spinale integro e in anestesia profonda, vari induttori dell’iperalgesia infiammatoria -quali l’iniezione di capsaicina, la stimolazione del nervo sciatico alla C-fibre strength e l’iniezione di formalina diluita- per verificarne gli effetti sui neuroni delle corna dorsali del midollo spinale. Al rilievo degli effetti è apparso chiaro che gli induttori del dolore infiammatorio erano in grado di generare, nelle cellule nervose degli strati superficiali di quest’area, un forte innalzamento della concentrazione del calcio endocellulare, che lentamente induceva lo sviluppo di un LTP.

Questo esperimento ha dimostrato che la stimolazione di bassa frequenza indotta dall’infiammazione è sufficiente, in vivo, a determinare l’aumento della concentrazione di calcio endocellulare ad un livello critico per l’induzione di LTP nelle sinapsi fra le fibre afferenti dei neuroni nocicettivi e il neurone midollare.

Si può affermare che il lavoro del gruppo di Ikeda, rivelando l’esistenza di un vero e proprio amplificatore della sensazione dolorifica situato in corrispondenza della prima sinapsi delle vie del dolore e specificamente attivato dal pattern di bassa frequenza dell’infiammazione, abbia fornito una prima risposta all’interrogativo sul processo che genera la sensibilizzazione centrale da stimoli infiammatori.

 

Quando un neurone sviluppa un LTP, la sua risposta agli impulsi che ne depolarizzano la membrana è notevolmente accentuata; dunque un tale stato funzionale potrebbe fungere da amplificatore di stimoli nocicettivi di lieve entità, costituendo un segnale d’allarme con un ruolo biologico diverso da quello del dolore acuto, perché esercita una protezione nei confronti dell’insidioso sommarsi nel tempo di piccoli effetti lesivi in aree e strutture dell’organismo già provate di recente da un danno.

Precedentemente si è fatto riferimento ad un complesso di piccoli sistemi, inizialmente identificati nel grigio periacqueduttale del mesencefalo[21], che nel suo insieme costituisce una via discendente di controllo inibitorio della nocicezione spinale, in grado di esercitare una profonda influenza sulla maniera in cui facciamo esperienza della sofferenza fisica. Lo studio delle aree e delle connessioni dalle quali origina questa funzione “analgesica”, ha rivelato un’importante partecipazione corticale, sottocorticale e troncoencefalica nella costituzione di una rete capace di integrare informazioni cognitive, emotive ed affettive secondo processi ancora in gran parte sconosciuti.

Oggi è accertato che le cellule nervose del grigio periacqueduttale troncoencefalico ricevono impulsi da varie aree corticali[22], così come dall’amigdala e dall’ipotalamo, ed inviano segnali all’area del bulbo indicata con l’acronimo inglese RVM (da rostral ventromedial medulla). L’attivazione di questo circuito media la potente soppressione del dolore che si verifica durante un trauma, uno stress intenso o uno stato di grande eccitazione, ma la sua funzione complessiva non si limita ad un’attività inibitoria. Infatti, numerose evidenze suggeriscono che il sistema nel suo complesso, in condizioni fisiologiche, svolge un ruolo di regolatore di intensità del dolore mediante l’azione di due classi distinte di neuroni:

 

1) cellule off, attivate da endorfine e mofina, inibitrici della trasmissione degli impulsi dolorifici;

2) cellule on, facilitatici della segnalazione del dolore e sensibili agli stimoli nocicettivi[23].

 

Si è poi accertato che questo sistema di controllo, e in particolare i neuroni della RVM, svolgono un ruolo importante nella persistenza del dolore acuto. Vari esperimenti avevano mostrato che, nel danno neuropatico sperimentalmente indotto nei roditori, una popolazione di cellule di questo nucleo bulbare emetteva una segnalazione che, invece di ridurre i segnali nocicettivi in arrivo, li amplificava. Un lavoro condotto da Porreca e colleghi nel 2001 ottenne un risultato illuminante in questo senso: impiegando il metodo della tossina legata al trasmettitore secondo la strategia del cavallo di Troia precedentemente descritta a proposito dello studio condotto dal gruppo di Patrick W. Mantyh, i ricercatori distrussero selettivamente nei ratti la popolazione neuronica del nucleo RVM sospettata di amplificare invece che inibire i segnali. Senza questi neuroni, i roditori ugualmente sviluppavano dolore patologico nella zampa innervata dal tronco nervoso sottoposto a danno sperimentale, ma la sofferenza durava poco tempo. Tale risultato, successivamente sottoposto a numerose verifiche, suggeriva che l’area RVM contiene una popolazione neuronica che specificamente interviene nel determinare una conversione funzionale responsabile del mantenimento dello stato alla base del dolore cronico.

Nel 2008 il team di Irene Tracey presso l’Università di Oxford ha cercato una verifica di questi risultati nell’uomo, in uno studio che ha avuto un’importanza decisiva per l’interpretazione del ruolo dei neuroni equivalenti a quelli del nucleo RVM dei roditori. Nei volontari in cui era stato indotto mediante capsaicina[24] un dolore simile a quello dei pazienti sofferenti di algie croniche, l’area della formazione troncoencefalica corrispondente alla RVM dei ratti presentava un’attività diversa da quella dei soggetti di controllo e in tutto simile a quella delle persone affette da dolore cronico.

Avuta questa conferma, si è compiuto un ulteriore passo in direzione dell’origine, cercando di individuare le cause che portano i neuroni bulbari del sistema di regolazione di intensità del dolore a rispondere emettendo segnali che amplificano le informazioni nocicettive. Varie evidenze, ancora al vaglio della verifica, sembrano indicare che segnali ectopici provenienti dal nervo danneggiato agiscono modificando lo stato delle cellule dell’area RVM inducendole a rispondere con una facilitazione, invece che con una inibizione, ai segnali dolorifici.

In attesa di ulteriori sviluppi di queste ricerche, passiamo ad un altro aspetto molto interessante della percezione del dolore: oltre ad operare attraverso un sistema di controllo dell’intensità degli stimoli, il sistema nervoso centrale è impegnato in attività di sintesi che sembrano essere alla base dello stato generale che connota la qualità complessiva di “esperienza spiacevole o insopportabile” con la sua gamma di differenti tipi, caratterizzati da componenti emotivo-affettive diverse e da particolarità che caratterizzano il vissuto soggettivo. Questi stati, convenzionalmente studiati come interpretazione del dolore, dipendono da innumerevoli fattori, quali il setting, il grado di attenzione e di allerta, il tono dell’umore, le esperienze passate della persona, il grado e il tipo di attivazione dei sistemi dello stress, la presenza di disturbi fisici e psichici pregressi, e così via. Sebbene la ricerca delle basi neurofunzionali dell’esperienza del dolore non possa penetrare la soggettività psicologica, oggi può fornire importanti elementi per la comprensione dell’influenza del dolore sulla sfera affettivo-emotiva e su quella cognitiva.

La potente attivazione da parte del dolore di aree cerebrali che elaborano le emozioni, è un’importante acquisizione degli anni recenti che ha determinato un superamento dei tradizionali limiti del campo di studio della neurofisiologia nocicettiva. Infatti, è stato accertato che i processi responsabili della sofferenza fisica determinano un’intensa attivazione della corteccia cingolata anteriore (ACC, da anterior cingulate cortex)[25], una regione che sembra implicata nel governare vari aspetti emotivi delle esperienze protopatiche, e dell’amigdala, il cui importante ruolo nella paura e in altre reazioni e stati emotivi è ben noto. Queste aree, che fanno parte di una sorta di asse cerebrale del dolore - come è stato battezzato di recente - possono diventare iperattive in sindromi e stati di dolore cronico, assumendo a loro volta un ruolo concausale mediante l’accentuazione della reattività di questi pazienti, in una sorta di circolo vizioso.

Studi recenti hanno fornito elementi significativi a favore dell’ipotesi che la ACC svolga un ruolo di collegamento fra l’elaborazione sensitiva del dolore e le risposte emozionali. Vari fattori che innescano il dolore cronico agiscono specificamente su questa parte della circonvoluzione del cingolo: i danni dei nervi periferici e l’infiammazione cronica, ad esempio, determinano una ristrutturazione neurale nella parte anteriore della corteccia cingolata che, d’altra parte, nella sua elaborazione delle risposte al dolore, subisce l’influenza di fattori psicologici come l’umore, le aspettative e la suggestione ipnotica[26]. Perciò si ritiene che la ACC integri gli impulsi sensitivi con gli stati emotivi e la sua attività sia alla base di alcune manifestazioni cliniche associate al dolore cronico, come i disturbi del sonno, la depressione e un particolare stato di angoscia caratterizzato dalla paura che la sofferenza diventerà così intensa da non essere più affrontabile e sopportabile (pain catastrophizing).

La comparsa di dolore nella depressione e nel PTSD[27], con una frequenza superiore alla media, potrebbe avere la sua base fisiopatologica in un’aumentata ed alterata attività della ACC.

Un altro aspetto interessante per la comprensione del ruolo dell’asse del dolore è che la sua iperattività aumenta le componenti spiacevoli dell’esperienza. Su questa base si può ipotizzare che gli stati di dolore cronico corrispondono ad una conversione dello schema funzionale normale (top-down), in cui i processi cognitivi ed emotivi controllano l’andamento del dolore, in un pattern fisiopatologico (bottom-up) in cui le informazioni sensitive dolorose dominano, alterando l’equilibrio emotivo e, in parte, anche quello cognitivo-affettivo.

Fece scalpore, alcuni anni or sono, il rilievo di deficit cognitivi causati dal dolore.

Nel 2004 un gruppo della Northwestern University’s Feinberg School of Medicine, guidato da A. Vania Apkarian, ha dimostrato che persone affette da dolore lombosacrale cronico o da sindrome dolorosa regionale complessa - una condizione debilitante che si può sviluppare dopo un trauma - mostravano una riduzione della capacità di valutare rischi e ricompense in prove decisionali. Pazienti e soggetti volontari sani di controllo furono sottoposti a delle prove basate sullo Iowa Gambling Task, un gioco che implica una scelta fra carte appartenenti a due mazzi, uno “cattivo”, che propone alti guadagni immediati ma ingenti perdite in futuro, e uno “buono” che, a fronte di guadagni immediati più bassi, assicura minime perdite future. I volontari di controllo, oltre a scegliere molto più spesso dei sofferenti le carte del mazzo “buono”, tenevano una condotta costante che contrastava con l’atteggiamento incostante dei pazienti, i quali frequentemente passavano da un mazzo di carte all’altro, con un atteggiamento che poteva apparire volubile. Questo risultati, insieme con quelli di altri studi simili, suggeriscono che le emozioni spiacevoli associate al dolore cronico riflettono l’esistenza di uno stato funzionale alterato, interferente con processi automatici alla base di valutazioni e giudizi come quelli richiesti in un gioco d’azzardo o in una simile situazione di scelta della vita reale.

La stessa riduzione della capacità di valutare il rischio è stata riscontrata da Volker Neugebauer e Vasco Galhardo[28] in ratti con patologia artritica dolorosa, dei quali è stata studiata la funzione cerebrale comparandola con quella di roditori sani. La stima erronea dei rischi era associata ad alterazioni della segnalazione nei circuiti che collegano l’amigdala alla corteccia prefrontale, ossia il complesso nucleare più importante nell’elaborazione sottocorticale delle emozioni e la parte del neopallio che governa le funzioni cognitive di più alto livello, come attenzione, memoria di funzionamento ed elaborazione delle decisioni.

Studi precedentemente svolti dallo stesso Neugebauer con i suoi collaboratori, suggeriscono che il dolore cronico sperimentalmente indotto nei ratti può portare all’amplificazione di segnali neurali in entrata nell’amigdala nocicettiva, ossia una parte del complesso amigdaloideo che specificamente interviene nell’elaborazione del dolore. Questo input accresciuto ai neuroni della formazione nucleare a mandorla, accresce l’attività efferente diretta alla corteccia prefrontale e consistente in una segnalazione amigdalo-corticale inibitoria. Tale esito, che appare coerente con il ruolo decorticante che la neurofisiologia classica ha attribuito alle strutture del sistema limbico, indica che il dolore cronico - nel topo e verosimilmente nell’uomo - accresce l’inibizione della corteccia prefrontale da parte dell’amigdala nocicettiva, compromettendo l’abilità di valutare correttamente il rischio e le opzioni nell’elaborazione delle decisioni. Simili alterazioni della fisiologia cerebrale possono spiegare la difficoltà di concentrarsi, i disturbi del pensiero ed altre forme di declino cognitivo nelle persone che soffrono di dolore cronico.

La prima dimostrazione di atrofia prefrontale da lombalgia, ad opera di Apkarian e colleghi, risale al 2004. In quello studio la riduzione volumetrica era proporzionale alla durata del dolore e grosso modo equivalente a quella prodotta dal processo di invecchiamento fisiologico nell’arco di 10-20 anni. Da allora, vari altri gruppi di ricerca hanno rilevato segni di atrofia nel cervello di pazienti affetti da diverse forme di sofferenza cronica persistente.

L’insieme dei dati ottenuti ha indotto ad ipotizzare che la fisiopatologia del dolore cronico potrebbe di per sé consistere in un processo neurodegenerativo che porta al danno e al rimodellamento della corteccia prefrontale e di altre aree implicate nell’elaborazione cognitiva e nel controllo di funzioni psichiche.

Gli eventi molecolari che conducono dal dolore cronico alla neurodegenerazione sono ancora da identificare, ma una prima traccia è già stata individuata proprio nell’ipereccitabilità dei neuroni che caratterizza le algie di lunga durata. L’aumentata reattività si traduce costantemente in un notevole innalzamento della quota del neurotrasmettitore glutammato rilasciata dai terminali sinaptici, con aumento relativo della frazione presente all’esterno delle cellule. La neurotossicità dell’acido glutammico è nota nei suoi dettagli molecolari, ma il suo ruolo nella degenerazione da dolore cronico per ora rimane una semplice ipotesi di lavoro, pertanto molte altre possibilità sono attualmente prese in considerazione da parte dei ricercatori.

Le immagini che inequivocabilmente documentano la ridotta densità neuronica nel talamo di destra e nella corteccia prefrontale di pazienti affetti da dolore lombare cronico[29], hanno sollevato numerosi interrogativi che ancora attendono risposta: dopo quanto tempo una sofferenza protratta diventa degenerativa? L’evoluzione naturale tende alla progressione ingravescente o si auto-limita? Quali sono i fattori necessari e sufficienti perché il dolore cronico si trasformi in un processo degenerativo? Esiste una predisposizione su base genotipica? Si può caratterizzare un endofenotipo?

In attesa che la ricerca fornisca risposte a questi quesiti, una sperimentazione più direttamente rivolta ad un fine pratico-applicativo in ambito diagnostico sta cercando di individuare dei biomarkers da ricercare nel sangue o in campioni di tessuto, per individuare precocemente segni di alterazioni del sistema nervoso centrale che indichino lo sviluppo di dolore cronico. Tali markers potrebbero consentire lo studio di un trattamento altamente specifico ed anche individualizzato. Intanto, le acquisizioni qui discusse hanno aperto nuove strade alla sperimentazione terapeutica.

 

POSSIBILITA’ TERAPEUTICHE. La ricerca sulla terapia farmacologica del dolore sperimenta il blocco dell’amplificazione ad ogni livello delle vie dolorifiche al quale si ritiene che tale incremento degli stimoli nocicettivi si verifichi.

Alcuni farmaci allo studio sono stati concepiti per contrastare l’anomala attivazione dei nocicettori. L’azione di alcuni di questi medicamenti è intesa ad ottenere un “effetto spugna”, ossia assorbire proteine o fattori di crescita nervosa che si ritiene accentuino l’eccitabilità di tali cellule trasmettitrici del dolore. Fra le altre molecole che si sono sperimentate allo scopo di ridurre l’anomala ipereccitabilità neuronica, vi sono i bloccanti dei canali del sodio (Na+ channel blockers) e inibitori di enzimi quali la NO-sintetasi, per il loro effetto sulla neurotrasmissione[30].

In futuro nuovi analgesici potrebbero agire sul piccolo sottoinsieme di cellule del corno dorsale del midollo spinale che Mantyh[31] e colleghi hanno legato allo sviluppo di sofferenza cronica, o sull’analoga popolazione individuata nella RVM. Una migliore comprensione dei meccanismi alla base del ruolo della ACC negli stati algici cronici, potrebbe portare allo sviluppo di farmaci agenti su questa area: molecole che, presumibilmente, avrebbero una maggiore efficacia nel ridurre gli effetti psicologici della sofferenza, vista l’importanza di questa parte della corteccia nell’elaborazione delle componenti affettivo-emotive delle sensazioni protopatiche.

Nelle intenzioni dei ricercatori, le terapie rivolte alla soppressione dell’abnorme amplificazione delle risposte nocicettive, non dovrebbero limitarsi al sollievo della sofferenza, ma dovrebbero anche prevenire le alterazioni strutturali e l’evoluzione nella patologia neurodegenerativa, temibile sia per gli effetti diretti sul sistema nervoso centrale, sia per il circolo vizioso che può innescare mediante l’indebolimento della soppressione cognitiva del dolore a causa del danno cortico-talamico. In altre parole, sono allo studio mezzi di trattamento che non si limitino ad agire sul sintomo, ma che si spera possano arrestare la degenerazione anche nelle sue espressioni meno evidenti.

E’ importante ricordare che la terapia farmacologica non è che una componente della strategia di intervento intesa a far cessare un dolore cronico apparentemente intrattabile[32]. Gli interventi psicoterapeutici, il miglioramento della vita di relazione del paziente grazie a rapporti che esercitino un sostegno quotidiano e generino affetti espansivi, l’impiego di tecniche per generare affetti positivi[33], si sono rivelati efficaci in molti casi.

 

CONCLUSIONI. I recenti progressi compiuti nello studio dei meccanismi del dolore hanno tracciato una linea di demarcazione sempre più netta fra le basi biologiche della risposta nocicettiva acuta e quelle dello stabilirsi di una sofferenza cronica. La natura diversa delle due reazioni fisiologiche richiama l’attenzione sulla prevalenza del valore protettivo della prima e di quello nocivo della seconda. Nel dolore cronico, il difetto di inibizione discendente, l’ipereccitabilità dei nocicettori (abbassamento della soglia ed accentuazione della risposta) con particolari alterazioni molecolari, l’intervento di specifiche sub-popolazioni del corno posteriore del midollo spinale e della RVM, il ruolo della ACC, dell’amigdala e di altre aree dell’elaborazione emotiva, l’intervento della corteccia e di fattori psicologici, nel loro insieme configurano un quadro che può essere accostato più ad uno stato tossico dell’organismo che al perdurare di una reazione acuta a stimoli potenzialmente dannosi.

L’aggiungersi a tali elementi della dimostrazione di una riduzione dei neuroni della corteccia prefrontale e di importanti strutture sottocorticali come il talamo, giustifica l’ipotesi di lavoro che considera il dolore cronico protratto alla stregua di una malattia neurodegenerativa, e ci rende conto dell’importanza della ricerca che tende ad individuare i meccanismi molecolari responsabili della degenerazione, allo scopo di prevenire conseguenze più gravi e insidiose della sofferenza stessa.

 

Giuseppe Perrella

(a cura di Ludovica R. Poggi)

BM&L-Luglio 2010

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI E LETTURE CONSIGLIATE

 

 

1. Apkarian V., et al. Chronic back pain is associated with decreased prefrontal and thalamic gray matter density. Journal of Neuroscience 24 (46), November 17, 2004.

 

2. Casey K. L. & Bushnell K. C. (editors), Pain Imaging. IASP Press, Seattle 2000.

 

3. Gold M. S., et al. Redistribution of Na(V)1.8 in Uninjured Axons Enables Neuropathic Pain. Journal of Neuroscience 23 (1), 158-166, 2003.

 

4. Hanssen P. T., et al. (editors), Neuropathic Pain: Pathophysiology and Treatment. IASP Press, Seattle 2001.

 

5. Loeser J. D., et al. (editors), Bonica’s Management of Pain (3rd edition).Lippincott, Williams and Wilkins, Philadelphia 2001.

 

6. Nash M. R. & Benham G., The Truth and the Hype of Hypnosis. Scientific American MIND, giugno 2005.

 

7. Nichols M. L., et al. Transmission of chronic nociception by spinal neurons expressing substance P receptor. Science 286, 1558-1561, 2009.

 

8. Perrella G., Lezioni di Neurochimica. BM&L, Firenze 2006.

 

9. Perrella G., Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 2005.

 

10. Porreca F. e Price T., When Pain Lingers. Scientific American MIND 20 (5), 34-41, 2009.

 

11. Standring S. (editor-in-chief), Gray’s Anatomy. Anatomical basis of clinical practice. ( XXXIX edition), Elsevier 2005.

 

12. Testut L. & Latarjet A., Trattato di Anatomia Umana. (V ed., in 6 voll.). UTET, Torino 1972.

 

13. Wall P., The Science of Suffering. Columbia University Press, New York 2000.

 

14. Wall P. & Melzack R., Textbook of Pain. Churchill Livingstone, London 1984.

 

15. Wickelgren Ingrid, I do not feel your pain. In Mind on Pain. Scientific American MIND 20 (5), 50-57, 2009.

 

16. Willis W. D. & Westlund K. N., Neuroanatomy of the pain system. Journal of Clinical Neurophysiology 14, 2-31, 1997.

 

17. Zhang Z. & Pan Z. Z. Synaptic mechanism for functional synergism between δ- and μ-opioid receptors. Journal of Neuroscience 30, 4735-4745, 2010.

 

APPENDICE

 

La sinergia mu-delta interessa il trattamento del dolore cronico

 

Gli analgesici oppioidi[34] hanno una straordinaria efficacia che si manifesta alle dosi terapeutiche con un potente effetto lenitivo del dolore dovuto all’attivazione dei recettori oppioidi μ. Ma il loro impiego clinico, soprattutto nel trattamento del dolore cronico, è notevolmente limitato dall’induzione di due effetti collaterali indesiderati ossia l’abitudine[35] e la dipendenza[36]; per superare questo ostacolo mediante un trattamento associato, si studiano i meccanismi molecolari all’origine di tali effetti negativi. Zhang e Pan del Department of Anesthesiology and Pain Medicine, The University of Texas MD Anderson Cancer Center, Houston (Texas), descrivono una sinergia funzionale fra i recettori oppioidi μ e δ in condizioni di cronica esposizione agli oppioidi, e propongono la modulazione di tale sinergia allo scopo di prevenire gli effetti indesiderati, migliorando la gestione del dolore (Zhang Z. & Pan Z. Z. Synaptic mechanism for functional synergism between δ- and μ-opioid receptors. Journal of Neuroscience 30, 4735-4745, 2010).

La somministrazione acuta di oppioidi attiva i recettori μ con la conseguente attivazione della via della fosfolipasi A2 (PLA2) e l’inibizione della trasmissione inibitoria GABA-ergica. La risultante disinibizione di neuroni inibenti il dolore produce effetti anti-nocicettivi. In altri termini, la successione di eventi rimuove il blocco all’inibizione del dolore.

 Oltre a mediare questa attività analgesica, i recettori oppioidi μ sono noti per la mediazione degli effetti indesiderati derivanti dalla somministrazione cronica degli oppiati. A conferma di quanto emerso in precedenti studi, i ricercatori hanno riscontrato che la prolungata esposizione alla morfina aumenta il traffico dei μ, normalmente espressi in bassissima quota sulle membrane plasmatiche, così che la deltorfina (μ-agonista specifico) può inibire le correnti inibitorie post-sinaptiche GABA-indotte nelle vie centrali del dolore.

Per studiare i mediatori a valle degli effetti μ-dipendenti, i due ricercatori hanno impiegato sezioni troncoencefaliche di ratto contenenti il nucleo del rafe magno, un’importante area per la regolazione dell’analgesia nelle vie della sensibilità dolorifica. In questi preparati hanno somministrato contemporaneamente deltorfina e AACOCF3 (inibitore selettivo di PLA2): gli effetti inibitori della deltorfina sulle correnti post-sinaptiche GABA-indotte nelle sezioni cronicamente esposte a morfina, erano solo parzialmente bloccate da AACOCF3. Poiché l’esposizione cronica agli oppioidi causa una upregulation della via di segnalazione della PKA, Zhang e Pan hanno somministrato il composto H39, inibitore della PKA, insieme con l’inibitore della PLA2, ottenendo la completa abolizione degli effetti della deltorfina.

E’ poi risultato che la risposta all’agonista μ-specifico DAMGO in seguito ad esposizione cronica alla morfina, dipendeva egualmente da queste due vie: una condizione diversa da quella della somministrazione acuta, che presenta una segnalazione μ esclusivamente dipendente da PLA2.

Per accertare l’eventuale interazione fra μ e δ, deltorfina e DAMGO sono stati somministrati contemporaneamente in sezioni troncoencefaliche di ratti lungamente esposti alla morfina. La potenza della miscela nell’inibire le correnti post-sinaptiche inibitorie GABA-indotte si è rivelata maggiore di quella degli agonisti presi singolarmente, suggerendo che gli effetti mediati da δ non si sommano semplicemente a quelli mediati da μ, ma realizzano un sinergismo con potenziamento o moltiplicativo.

Gli esiti di questa sperimentazione indicano che un’azione farmacologica mediata dai recettori δ potrebbe essere un mezzo per affrontare i problemi di abitudine e dipendenza derivati dalla somministrazione cronica di analgesici agenti sui recettori μ. Poiché altri studi hanno dimostrato che i δ-agonisti sono sprovvisti degli effetti di rinforzo e sedativi dei μ-agonisti, si può dire che è stata individuata una nuova classe di farmaci candidati ad aggiungersi all’armamentario terapeutico con il quale si affronta la difficile sfida della cura del dolore cronico.

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-Giugno (12-06-10) 2010

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

 

 



[1] La definizione è stata introdotta dalla IASP nel 1979 e, sebbene non si adatti a neonati, lattanti, bambini piccoli e persone con vari tipi di disturbi mentali o limitazioni cognitive, costituisce ancora oggi lo standard di riferimento in questo campo.

[2] Un tempo, seguendo le descrizioni anatomiche classiche, si riservava il termine “nocicettore” alla terminazione recettoriale periferica dei neuroni sensitivi protopatici (cellule a “T”) con il corpo cellulare nel ganglio spinale o nel ganglio dei nervi cranici. Attualmente si tende a seguire l’uso della fisiologia, che identifica il nocicettore con tutta la cellula. Questo criterio si applica anche ad altre strutture percettive; ad esempio nella retina si indicano con coni e bastoncelli le cellule fotorecettrici, incluso l’articolo esterno dal quale prendono il nome. Tale uso è seguito da tempo in ambito sperimentale dove, d’altra parte, al livello molecolare il termine “recettore” è pressoché esclusivamente impiegato per designare le molecole proteiche che ricevono un ligando.

[3] Più avanti si fornisce un’indicazione più particolareggiata delle aree importanti nella modulazione del dolore e dei principali meccanismi noti.

[4] Stimoli nocivi per la pelle, le mucose, le articolazioni, i muscoli e vari altri tessuti non superficiali, sono in grado di attivare le terminazioni di queste tre classi di cellule sensitive. A differenza di quanto accade per la sensibilità tattile epicritica e propriocettiva cosciente, non vi sono strutture recettive periferiche con una precisa conformazione anatomica ed una specializzazione funzionale legata alla morfologia (corpuscoli di Meissner, strutture di Dogiel, corpuscoli di Ruffini, clave sferoidali di Krause, corpuscoli del Pacini, ecc.) ma, nella massima parte dei casi, il nocicettore riceve lo stimolo mediante terminazioni nervose libere.  Lo stimolo non è di per sé “doloroso”, ma acquista questa qualità per effetto dell’elaborazione nervosa che, come in tutte le altre percezioni, ha nella sintesi psichica l’espressione di più alto livello e la variabile di grado maggiore. Lo stress, vari tipi di emozioni e i sentimenti, possono far variare grandemente la soglia di percezione del dolore e inibirlo anche per un tempo protratto (si pensi ai pugili che talvolta non sentono dolore fino alla fine del round o lo avvertono poco fino alla fine del match). Per una trattazione dettagliata ed esaustiva si consiglia di integrare i trattati di neurofisiologia più autorevoli e recenti con le rassegne e i lavori sperimentali selezionati dalle maggiori riviste per le raccolte monografiche. I soci possono, previa iscrizione al gruppo di studio sulle basi neurobiologiche del dolore, disporre di una bibliografia che va dalle opere che costituiscono i classici di questo settore fino alle ricerche in corso.

 

[5] Si pensi ad un trauma causato da una caduta in corsa: a causa dell’impatto si sente immediatamente un dolore acuto, trasmesso dalle fibre Aδ a conduzione rapida (nocicettori meccanici), seguito da sensazioni originate da informazioni condotte dalle fibre C dei nocicettori polimodali ed elaborate in un tempo più lungo, con i caratteri del “bruciore” se prevale, ad esempio, un’abrasione cutanea, oppure con quelli di un dolore sordo se prevalgono gli effetti di una contusione.

 

[6] Detta anche semplicemente Gate Theory o, talvolta, teoria di Melzack. In alcune trattazioni italiane è anche definita “teoria del cancello”, traducendo un po’ approssimativamente la parola gate che indica un portale e si riferisce ad un varco controllato come quelli allestiti negli aeroporti.

 

[7] Si raccomanda la lettura dei passi successivi agli studenti e a coloro che abbiano da tempo lasciato lo studio di questi argomenti, perché vi troveranno nozioni utili. Al lettore che non abbia una formazione universitaria sulla struttura e le funzioni del sistema nervoso centrale e, pertanto, trovi troppo tecnica l’esposizione che segue, si consiglia di saltare di cinque capoversi riprendendo la lettura da “Queste nozioni aiutano a capire…”.

[8] Sono peptidi ad attività oppioide così battezzati per la loro enorme potenza. Derivano dalla prodinorfina, una grosso polipeptide che contiene 5 peptidi principali.

[9] Sono pentapeptidi originati dalla proencefalina A, un grosso polipeptide di 265 aminoacidi che contiene nella sua sequenza sia la metionin-encefalina (met-encefalina), sia la leucin-encefalina (leu-encefalina).

[10] Le endorfine possono considerarsi frammenti della β-lipotropina che origina dal pro-ormone POMC (pro-oppio-melano-cortina) come l’ACTH.

[11] In chiave evoluzionistica la neurotrasmissione affidata a più molecole può interpretarsi sia come indice di processo filogeneticamente primitivo, simile al funzionamento delle cellule del tratto gastroenterico contenenti granuli con peptidi e amine biogene, sia nei termini dell’importanza della percezione del dolore per la sopravvivenza dell’organismo.

[12] Si veda l’articolo “L’arto fantasma” nella sezione “IN CORSO” del sito della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia (www.brainmindlife.org).

[13] Riferimenti agli studi del gruppo di Clifford Wolff (University College of London and Harvard University) sono presenti nelle maggiori rassegne sull’argomento; un cenno si trova alla pagina 36 di Frank Porreca e Theodore Price, When Pain Lingers. Scientific American MIND 20 (5), 34-41, 2009.

[14] Lo studio del dolore neuropatico costituisce un campo in continua evoluzione: ai numerosi elementi sui meccanismi molecolari emersi di recente si è aggiunta l’ipotesi di un ruolo delle trombospondine (si veda in Note e Notizie 12-12-09 Identificato un recettore che media la sinaptogenesi).

[15] Più avanti si farà riferimento agli studi sui meccanismi di “memoria” alla base della persistenza del dolore.

[16] Sono stati sperimentati come antidolorifici farmaci bloccanti i canali del sodio come la ralfinamide (si veda: Note e Notizie 24-06-06 Dolore: nuovi farmaci e nuovi problemi). Per avere un quadro delle nuove vie percorse dall’analgesia farmacologica dopo l’era dei trattamenti monopolizzati da analgesici (generalmente oppiacei ad azione centrale) ed anti-algici  (ad azione periferica prevalente o esclusiva), si veda in RUBRICHE -- DIBATTITI -- “I nuovi farmaci nella terapia del dolore”. Per chi voglia introdursi alle nozioni classiche di base della farmacoterapia del dolore: IN CORSO --  “Farmaci e meccanismi nella terapia del dolore”.

[17] Michael S. Gold et al. Redistribution of Na(V)1.8 in Uninjured Axons Enables Neuropathic Pain. Journal of Neuroscience 23 (1), 158-166, 2003.

[18] Nichols M. L., et al. Transmission of chronic nociception by spinal neurons expressing substance P receptor. Science 286, 1558-1561, 2009.

[19] Gli stati dolorosi di tipo neuropatico ed infiammatorio consistevano in iperalgesia termica ed allodinia meccanica.

[20] Si veda “Note e Notizie 12-09-06 Dolore: Un amplificatore nel midollo spinale”. Si consiglia vivamente agli studenti la lettura delle righe seguenti in corpo minore, perché sintetizzano alcune utili nozioni riguardanti l’iperalgesia. Ai lettori che trovano eccessivo il dettaglio scientifico di quella recensione si suggerisce di saltare all’ultimo capoverso: “Si può affermare che il lavoro del gruppo di Ikeda …”

[21] Esperimenti condotti presso l’Università della California a Los Angeles (UCLA) avevano dimostrato, già all’inizio degli anni Settanta, che la stimolazione di una particolare area del mesencefalo era in grado di causare sollievo nei ratti prostrati dal dolore.

[22] Nell’elaborazione del dolore sono attive aree della corteccia prefrontale, parietale posteriore, motoria, somatosensitiva, del giro del cingolo (anteriore e posteriore) e dell’insula. Si è scelto di riportare sinteticamente questo riferimento in nota, invece di trascrivere la dettagliata disamina dei centri corticali implicati nell’elaborazione del dolore, per non interrompere il filo della trattazione.

[23] La funzione di questo circuito è notevolmente influenzata da fattori psicologici e risente dell’effetto placebo.

[24] Composto contenuto nel peperoncino rosso o pepe di Caienna, ampiamente usato come stimolo nocicettivo a scopo sperimentale per la sua straordinaria potenza ed efficacia a piccole dosi.

[25] Il giro del cingolo (gyrus cinguli, secondo l’IANC, International Anatomical Nomenclature Committee) o circonvoluzione del corpo calloso, che Broca aveva descritto come lobulo del corpo calloso, circonda e segue dal ginocchio allo splenio il contorno del corpo calloso come il cingolo di un carro armato, con il margine superiore delimitato dal solco del cingolo che, con i suoi rami più piccoli, lo rende irregolare e festonato, presentando parti che Rolando aveva paragonato alla cresta del pollo (circonvoluzione crestata). In corrispondenza dello splenio si continua con la circonvoluzione dell’ippocampo, che appartiene alla faccia inferiore degli emisferi e costituisce uno dei collegamenti più studiati per comprendere i ruoli fisiologici dei neuroni che hanno sede in questa formazione. Osservando la superficie mediale dell’emisfero ci si rende conto che il giro del cingolo ne costituisce una parte importante, sormontata da giro frontale interno, lobulo paracentrale, cuneo e precuneo: strutture neocorticali implicate nei processi cognitivi.

[26] Come è stato documentato in vari studi mediante neuroimaging. Si veda, in proposito: Nash M. R. & Benham G., The Truth and the Hype of Hypnosis. Scientific American MIND, giugno 2005.

[27] Si veda G. Perrella, Il Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Università degli Studi di Napoli Federico II, Napoli 2005.

[28] Rispettivamente della University of Texsas Medical Branch e dell’Università di Porto (Portogallo).

[29] Le immagini presentate nel corso della relazione erano tratte da Apkarian V., et al. Chronoic back pain is associated with decreased prefrontal and thalamic gray matter density. Journal of Neuroscience 24 (46), November 17, 2004.

[30] Si veda anche in “I nuovi farmaci nella terapia del dolore” (www.brainmindlife.org, percorso: HOME PAGE ITALIANA --- RUBRICHE --- DIBATTITI); nel testo del dibattito i partecipanti illustrano e discutono i meccanismi d’azione di farmaci di nuova concezione. Si ricorda, a coloro che non abbiano una specifica formazione in questo ambito, che nella sezione IN CORSO, sotto il titolo “Farmaci e meccanismi nella terapia del dolore”, vi è un’introduzione di farmacologia classica all’argomento secondo la ripartizione in analgesici (ad azione prevalentemente od esclusivamente centrale) ed antidolorifici o antalgici (ad azione periferica).

[31] Patrick W. Mantyh, attualmente all’Università dell’Arizona, all’epoca dell’identificazione di questi neuroni (1999) era all’Università del Minnesota.

[32] Esulano dai limiti di questa trattazione i riferimenti alle numerose tecniche di trattamento non farmacologico al vaglio sperimentale o attualmente in uso, fra le quali si annoverano procedure come l’agopuntura, che proviene da un’antica tradizione empirica ma da qualche decennio è studiata allo scopo di comprenderne le basi per un uso razionale. In proposito, si ricorda che l’impiego di aghi rotanti nell’analgesia spinale, basato su un criterio di interferenza sensitiva, ha già una lunga storia nella medicina clinica. In generale i mezzi di analgesia non farmacologica, esclusi forse quelli basati su un training che educa la risposta al dolore, sembra che possano contare per la loro efficacia su una notevole componente di effetto placebo.

[33] Si veda sul sito della Società Nazionale di Neuroscienze BM&L-Italia (www.brainmindlife.org) nella sezione “IN CORSO”: G. Perrella, Le basi e l’uso degli effetti benefici di umorismo e risate. BM&L-Italia, Firenze 2010.

[34] I termini oppioidi, oppiacei ed oppiati si considerano sinonimi ed indicano i composti chimicamente correlati alla morfina (da Morfeo, dio del sonno), il primo alcaloide analgesico isolato dal farmacista tedesco Friedrich Sertüner nel 1803 dal Papaver somniferum dal quale si ricava un succo denominato opion nell’antica Grecia (si veda in G. Perrella, Appunti di Neurochimica. BM&L, Firenze 2006).

[35] Per abitudine si intende uno stato del sistema che determina la necessità di aumentare la dose per conservare l’effetto.

[36] Per dipendenza si intende uno stato psichico cronico caratterizzato da un desiderio compulsivo di assunzione della sostanza, avvertito dal soggetto come un bisogno, e dallo sviluppo della sindrome da astinenza qualora si cessi bruscamente l’assunzione. Seguendo la classica distinzione - oggi abbandonata da molti per deficit di sostegno sperimentale - fra dipendenza fisica (necessità dell’assunzione per il normale svolgimento di processi molecolari e funzioni fisiologiche dell’organismo, con sviluppo di sindrome da astinenza in caso di brusca interruzione) e dipendenza psichica (caratterizzata essenzialmente dal piacere nell’assunzione e, in caso di sospensione, da dispiacere con tensione, irritabilità ed altri sintomi minori, ma mai da sindrome da astinenza), si ricorda che la somministrazione protratta di analgesici oppiacei è in grado di provocare entrambi i tipi.