I nuovi neuroni sono tenuti in vita
dall’apprendimento
Una
bella signora bionda dal sorriso accattivante, esponendo dal palco di un
recente convegno i risultati dei suoi studi, ha trasmesso un po’ della sua
fiducia e del suo entusiasmo all’uditorio medico in ascolto. E’ Tracey Shors,
la ricercatrice che con Elizabeth Gould[1]
per prima ha stabilito l’importanza dell’apprendimento per la sopravvivenza
delle cellule nervose neoprodotte.
Fin
dalla scoperta della neurogenesi nel cervello maturo dei mammiferi,
i ricercatori hanno nutrito speranze circa la possibilità di sfruttare questo
fenomeno naturale per compensare la perdita patologica o traumatica di neuroni,
ma, ad oltre dieci anni di distanza, la conoscenza dei meccanismi molecolari e
della fisiologia di questo processo presenta ancora molti lati oscuri, e la
speranza di riuscire a guidare i neuroblasti nelle sedi del danno per
rimpiazzare i neuroni perduti, non si è ancora tradotta in realtà.
Le
aree anatomiche dove si ha la genesi di nuovi neuroni, quali il giro dentato
dell’ippocampo, il bulbo olfattivo e le pareti dei ventricoli laterali, hanno
mostrato peculiarità che le contraddistinguono: nel bulbo olfattivo il fine
biologico primario sembra essere la conservazione, mediante la sostituzione di
cellule perdute, del patrimonio cellulare necessario all’espletamento della
funzione, mentre nell’ippocampo le nuove cellule sono aggiunte a quelle già
presenti e sembrano avere un preciso ruolo nella formazione di nuove memorie[2].
Le
evidenze emerse dagli studi della Shors, e da quelli di innumerevoli gruppi di
ricerca che lavorano in questo campo in tutto il mondo, dimostrano l’importanza
dello stimolo cognitivo nel mantenere in vita le cellule
nervose neoprodotte. In particolare, le ricerche più recenti hanno posto
l’accento sul tipo di impegno più idoneo ed efficace in tal senso.
I
dati preliminari ottenuti negli esperimenti con animali, supportano l’idea
dell’efficacia dell’esercizio riabilitativo assistito da computer (CACR, da Computer Assisted Cognitive Rehabilitation)
allo scopo di prolungare la sopravvivenza delle cellule generate nella vita
adulta. E’ evidente che il trattamento con adeguati programmi di esercizio
cognitivo non potrà ostacolare l’inesorabile declino dovuto alla progressione
neurodegenerativa di malattie come quella di Alzheimer, ma vi sono fondati
motivi per sperare che tali esercizi possano prolungare il periodo di
conservata efficienza mentale in molte condizioni patologiche e migliorare le
prestazioni nell’invecchiamento fisiologico[3].
Dalla
sperimentazione animale è emersa una nozione rilevante: non tutti i tipi di
apprendimento hanno lo stesso potenziale nel preservare le cellule nervose. Ad
esempio, esercitare un topo a nuotare per raggiungere una piattaforma visibile
in una piccola piscina – esperimento standard cui si sottopongono i roditori
per vari scopi sperimentali – non aumenta la sopravvivenza dei nuovi neuroni.
Allo stesso modo, si è rivelato inefficace l’addestramento di un animale a
riconoscere la simultaneità di due stimoli, quali un tono acustico e
un’induzione all’ammiccamento (battito di palpebra). Tracey Shors e colleghi
della Rutgers University hanno prima ipotizzato e poi dimostrato che prove così
semplici si basano su automatismi, e sono prive dello sforzo “mentale” che ha
il potere di tenere in vita i nuovi neuroni (Tracey
J. Shors, Saving New Brain Cells. Scientific
American 300 (3), 40-49, 2009).
L’apprendimento
di risposte di maggiore impegno, pur sempre basate sul paradigma
sperimentale dell’apprendimento per condizionamento associativo
dell’ammiccamento (eyeblink conditioning),
è risultato in grado di prolungare la sopravvivenza delle cellule originate da
neurogenesi recente. Inoltre, quanto maggiore era la difficoltà della prova,
tanto più grande era la frazione di neuroni tenuti in vita. Curiosamente, è
stato rilevato che i ratti più lenti nell’apprendere, ossia quelli che
richiedevano più tempo e un maggior numero di sessioni della prova, salvavano
più cellule neonate: questo dato sembra confermare l’importanza preminente
dell’entità dello sforzo, rispetto al raggiungimento
dell’obiettivo dell’addestramento. Nei ratti è stata rilevata una differenza
sessuale: le femmine mostravano mediamente migliori prestazioni
nell’apprendimento, con il riscontro di una frazione più alta di nuovi neuroni
ritenuti nell’ippocampo[4].
Uno studio più analitico ha poi rivelato che le femmine fanno registrare
risultati migliori nell’ammiccamento condizionato, nella risposta di sussulto
potenziata dalla paura e in varie prove di condizionamento operante, mentre i
maschi si sono rivelati più bravi in paradigmi sperimentali che comportano la
risposta mediante la pressione di una leva, ed hanno mostrato maggiore
efficienza o maggiore resistenza all’estinzione nell’apprendimento di risposte di
avversione condizionate dal gusto[5].
L’importanza
dello sforzo cognitivo dei roditori si può spiegare in vario modo, ma il gruppo
della Rutgers University ha proposto e verificato sperimentalmente la seguente
tesi: le prove che richiedono più risorse cognitive o un tempo più lungo per
essere apprese, attivano più vigorosamente la rete
neuronica ippocampale
che include le cellule neonate, ed è proprio l’attivazione di questa rete la
chiave del processo che protrae la sopravvivenza.
Questa
tesi – definita teoria dalla Shors –
si basa su evidenze emerse dal lavoro di molti ricercatori che, in precedenza,
hanno dimostrato che prove quali quelle che implicano apprendimento, aumentano
l’eccitabilità di alcune popolazioni dell’ippocampo rendendole di gran lunga più
attive della norma: il grado di attivazione è strettamente correlato con
l’efficienza nell’apprendimento da parte dell’animale.
Un
altro aspetto rilevante è l’esistenza di una finestra temporale critica durante la quale l’apprendimento
può salvare i nuovi neuroni. Nel ratto questo intervallo di tempo, secondo uno
studio recente, è compreso fra i 7 e i 10 giorni: l’addestramento che precede
il settimo giorno non risulta efficace, come quello che segue il decimo, quando
la maggior parte delle cellule è morta o morente.
Questa
finestra corrisponde alla fase di
differenziazione delle nuove cellule nervose che sviluppano dendriti, con specifiche ramificazioni riceventi per neuroni di
sistemi appartenenti ad altri territori cerebrali, ed assoni veicolanti messaggi prevalentemente diretti all’area CA3
dell’ippocampo. Proprio in questa fase di maturazione, le nuove cellule del
giro dentato acquisiscono la capacità di rispondere ai neurotrasmettitori secondo le proprietà dei neuroni adulti di quella regione.
Queste
osservazioni suggeriscono che gli elementi cellulari neoprodotti devono essere
maturi e correttamente collegati all’interno della reti neuroniche, prima di
poter rispondere all’apprendimento. Quando l’apprendimento mette alla prova le
risorse dell’animale, i neuroni che prendono parte alle reti ippocampali,
inclusi i nuovi, sono pienamente impegnati e, probabilmente, è proprio il
reclutamento in questa rete ad alto regime di attività, a tenere in vita le
cellule nervose generate di recente.
Le
evidenze sperimentali e le interpretazioni appena proposte, tratteggiano un
quadro di questo genere: migliaia di nuove cellule ogni giorno nascono ed
entrano nel novero potenziale dei neuroni ippocampali, formano connessioni
sinaptiche specifiche e, se sono impegnate da una stimolazione cognitiva intensa durante il periodo sensibile (fra il 7° e il 10°
giorno di vita cellulare), sopravvivono, altrimenti vanno incontro a morte. Ciò
vuol dire che il loro apporto all’apprendimento che si verifica in tempo reale, è praticamente nullo. Se si
pensa che una parte notevole della vita di un animale nel suo ambiente è
costituita da una miriade di microapprendimenti che avvengono in tempi
brevissimi[6],
si può ritenere che la cosiddetta funzione
psichica di base attuale non si avvalga dell’apporto di neuroni che possono
specializzarsi per l’occorrenza solo sette giorni dopo la loro nascita.
Qual
è, dunque, il ruolo dei nuovi neuroni ippocampali
nell’apprendimento?[7]
Per
cercare di stabilire un profilo del ruolo fisiologico dei neuroni neoprodotti
in rapporto al compito ed al tempo, queste cellule sono state eliminate nei
ratti, studiando le conseguenze della loro assenza. A questo scopo, gli animali
sono stati trattati per varie settimane con un farmaco chiamato MAM, che è in
grado di bloccare la divisione cellulare, e successivamente sono stati
sottoposti a classi di apprendimento di prove standard. Le prestazioni dei
ratti trattati con MAM sono state poi confrontate con quelle dei roditori di
controllo.
In
alcune prove di apprendimento dipendenti dall’ippocampo (es.: Morris water maze), gli animali privi
dell’ausilio della neurogenesi hanno fatto registrare buoni risultati. I ratti
trattati con MAM hanno anche dimostrato di apprendere velocemente ed
efficientemente le associazioni emotive: il condizionamento contestuale della
paura, che richiede l’intervento dell’ippocampo, è stato da loro appreso come
dai ratti normali.
Questo
genere di esperimenti sembrava aver dimostrato che gli animali privati di una
parte consistente delle nuove cellule nervose ippocampali, conserva una normale
capacità di apprendimento; tuttavia, la prosecuzione della sperimentazione ha
evidenziato i limiti di questi roditori.
I
ratti trattati con MAM da Tracey Shors e i suoi collaboratori, avevano notevoli difficoltà ad apprendere compiti solo un po’ più complessi; in particolare, non riuscivano ad imparare
l’anticipazione dello stimolo in una prova classica di condizionamento
dell’ammiccamento (500 millisecond trace
eyeblink conditioning task). La Shors ha rilevato che le prove prive di un
particolare sforzo non costituivano un problema per gli animali trattati in
modo da invalidarne la neurogenesi cerebrale, ma quando era richiesta una sorta
di “operazione cognitiva” le povere bestiole apparivano del tutto incapaci. Ad
esempio, i roditori avevano problemi nel rendersi conto che un suono precedeva
sempre di 500 millisecondi uno stimolo erogato sulla loro palpebra[8].
Questi
esiti sperimentali hanno indotto i ricercatori della Rutgers University a
ritenere che l’importanza delle cellule generate quotidianamente nell’ippocampo
adulto è ristretta ad una particolare categoria di apprendimenti accomunati, a
quanto pare, dalla necessità di un intervento
cognitivo attivo[9].
Se
esaminiamo questi risultati in un quadro biologico più generale, possiamo
facilmente spiegarli in una chiave evoluzionistica. In un animale, la
cosiddetta funzione psichica di base attuale ha un ruolo fondamentale,
in quanto sintetizza processi cognitivi di tipo attentivo-percettivo con
risposte emozionali (fight or flight),
in relazione allo stato interno (neurovegetativo, neuroendocrino, ecc.) ed alle
condizioni ambientali (presenza o assenza di cibo, partner sessuale, pericoli,
ecc.). Dall’efficace sintesi adattativa di tutti gli automatismi di base, operata
da questa funzione, dipende la vita stessa dell’animale, perciò appare
altamente improbabile che la gestione di apprendimenti basati solo su queste
risposte automatiche semplici, possa fondarsi su nuove cellule e non su reti
consolidate in milioni di anni di evoluzione. E’ dunque plausibile che le
abilità più semplici, messe alla prova negli esperimenti precedentemente
citati, non richiedano l’intervento dei neuroblasti del giro dentato.
Tutto
quanto fin qui discusso si è basato su studi condotti negli animali, in
particolare ratti e topi, e per quanto vi sia una notevole somiglianza
funzionale fra uomo e roditori nella biologia dei processi cerebrali di base,
non si possono automaticamente estendere i risultati alla nostra specie,
soprattutto in considerazione del fatto che l’apprendimento umano ha
un’architettura cellulare e molecolare notevolmente più complessa. La
sperimentazione umana è ancora preclusa per limiti tecnici che non consentono
di realizzare esperimenti eticamente accettabili, tuttavia possiamo già
disporre di evidenze che sembrano confermare quanto osservato nei roditori: le
persone sottoposte a trattamento antitumorale mediante chemioterapia antiblastica hanno spesso difficoltà
nell’apprendere e ricordare cose recenti. Questi farmaci bloccano la divisione
cellulare necessaria alla genesi di nuove cellule, comprese quelle ippocampali,
perciò riprodurrebbero una condizione simile a quella artificialmente indotta
nei ratti trattati con MAM[10].
Il
disturbo cognitivo, come quello riscontrato negli animali, sembra essere lieve,
consentendo a questi pazienti un normale svolgimento delle azioni della vita
quotidiana e non precludendo la vita sociale e la maggior parte delle attività
lavorative. Alcuni, però, incontrano particolari difficoltà in compiti che
richiedono un esteso impegno della working memory, come quelli che comportano la sospensione in memoria di
alcuni dati mentre si opera su altri, o che prevedano la contemporanea gestione
di più processi. Altri lamentano un’incapacità di ricordare che, spesso, non si
riferisce alla rievocazione di memorie di lungo termine, ma alla fissazione e
al riutilizzo di quanto registrato nel corso di una stessa giornata o anche in
un arco di tempo di alcune ore. I clinici statunitensi definiscono questa sindrome
“chemobrain” e ne conoscono la reversibilità con la cessazione degli effetti
dei farmaci.
Per
mettere a punto una sperimentazione in grado di valutare l’incidenza della
neurogenesi ippocampale sulle funzioni cognitive umane, sarà necessario sviluppare
metodi non invasivi per riconoscere e rilevare i nuovi neuroni nel cervello in vivo, e impiegare modalità non nocive
e rapidamente reversibili per impedire la
maturazione cellulare
durante i processi di apprendimento. I metodi di rilievo delle cellule neonate
sono in corso di realizzazione, ma per modalità innocue di arresto della
maturazione delle cellule bisognerà attendere ancora.
Intanto,
continua a crescere la mole notevole di dati empirici e rapporti descrittivi
che attestano gli effetti positivi dell’esercizio cognitivo nelle malattie
neurodegenerative. Si è comunemente ritenuto, così come nel danno da causa
vascolare o traumatica, che l’allenamento cui si sottopongono i circuiti vitali
possa svolgere una funzione di supplenza o di compenso delle funzioni delle
cellule perdute, ma oggi si prende in considerazione anche il ruolo della
neurogenesi. Ad esempio, nella malattia
di Alzheimer la
progressiva perdita della memoria e della capacità di apprendere si attribuisce
prevalentemente alla degenerazione dei neuroni ippocampali. In questi pazienti
è conservato il processo di genesi di nuove cellule nervose, ma sembra che una
parte consistente non raggiunga la piena maturità. Si è supposto che alcuni dei
meccanismi patogenetici della malattia inficino anche la neurogenesi e la
maturazione, ma non si può escludere che il danno diffuso, soprattutto della
corteccia, impedisca l’attuazione di quei processi mentali che, impegnando a
fondo i nuovi neuroni del giro dentato, ne determinano la sopravvivenza. Per chiarire
questi dubbi, molto probabilmente si dovrà attendere fino a quando si potrà
disporre di modalità innocue per la verifica in vivo nel cervello umano. Quando si avrà tale possibilità, si
dovrà tener presente che la riabilitazione
cognitiva assistita da computer (CACR), portata in Italia da Luciano Lugeschi, fornisce un bacino
straordinariamente ampio di persone che, in quanto ottengono spesso un notevole
recupero funzionale attraverso un esercizio mentale molto impegnativo,
potrebbero aiutarci a capire quanto del successo terapeutico sia dovuto
all’aumento di sopravvivenza dei neuroni neoprodotti.
L’autrice del testo ringrazia il professore Perrella,
presidente della Società Nazionale di Neuroscienze, col quale ha discusso
l’argomento trattato. Le note di recensione che trattano argomenti collegati
alla neurogenesi sono numerose e interessanti: si invitano i visitatori del
sito a leggerle, cercandole nell’elenco delle nostre “Note e Notizie”. La bozza
di questo testo è stata corretta dalla dottoressa Isabella Floriani.
[Tipologia del testo:
AGGIORNAMENTO]
riferimenti per
approfondire
Aimone James B., Wiles Janet
& Gage Fred H. Computational Influence of Adult Neurogenesis on Memory
Encoding. Neuron 61 (2), 187-202, 2009 [si veda la recensione in
Note e Notizie 21-02-09 Come i
nuovi neuroni influenzano la codifica della memoria].
Clelland C. D. et al. A functional role for
adult hippocampal neurogenesis in spatial pattern separation. Science 325, 210-213, 2009 [si veda la recensione in
Note e Notizie 26-09-09 Un nuovo ruolo
per la neurogenesi nel cervello adulto].
Dalla C., et al. Female rats learn
trace memories better than male rats and consequently retain a greater
proportion of new neurons in their hippocampi. Proceedings of the National Academy of Science USA 106 (8), 2927-2932, 2009.
Dalla C. & Shors T. J. Sex
differences in learning processes of classical and operant conditioning. Physiology
& Behavior 97 (2): 229-238, 2009.
Donlea J. M., Ramanan N., Shaw
P. J. Use dependent plasticity in clock neurons regulates sleep need in
Drosophila. Science 324,
105-108, 2009 [si veda la recensione in Note e
Notizie 04-07-09 La melatonina modula la sopravvivenza dei nuovi neuroni].
Imayoshi I., et al. Roles of continuous neurogenesis
in the structural and functional integrity of the adult forebrain. Nature
Neuroscience 11 (10), 1153-1161, 2008 [si veda la recensione in Note
e Notizie 18-10-08 La neurogenesi continua ha ruoli diversi].
Tracey J. Shors, Saving New
Brain Cells. Scientific American 300
(3), 40-49, 2009.
[1] Elizabeth Gould, attualmente alla Princeton University e precedentemente alla Rockfeller University, è fra gli scopritori della neurogenesi post-natale nell’encefalo di mammiferi; nel 1999, collaborando con la Tracey, ha stabilito per la prima volta un collegamento fra la neurogenesi del giro dentato ippocampale e l’apprendimento. Tracey Shors è attualmente docente della Rutgers University, dove lavora presso il Center for Collaborative Neuroscience.
[2] Si vedano le recensioni: Note e Notizie 18-10-08 La neurogenesi continua ha ruoli diversi; Note e Notizie 21-02-09 Come i nuovi neuroni influenzano la codifica della memoria.
[3] Fin dalla scoperta della neurogenesi nel cervello di vertebrati adulti, a pochi anni dall’introduzione in Italia della CACR da parte di Luciano Lugeschi, Giuseppe Perrella ha ipotizzato l’azione di stimolo differenziativo dell’esercizio cognitivo sui nuovi neuroni, suggerendo l’esistenza di un processo simile a quello descritto da Fernando Nottebohm per la neurogenesi nel cervello degli uccelli durante l’apprendimento del canto. Un altro aspetto dei rapporti fra attività cognitiva, neurogenesi e sinaptogenesi, secondo noi soci di BM&L, dovrebbe essere tenuto da conto per le ricerche future: lo stimolo cognitivo in grado di ottenere effetti cerebrali, ha potenziali ripercussioni benefiche sulla fisiologia di tutto l’organismo, verosimilmente con un’azione positiva di ritorno sull’encefalo stesso. Un tale circolo virtuoso andrebbe indagato e, magari, i risultati potrebbero spiegare fenomeni come l’allungamento della vita e la migliore risposta alle malattie, in seguito a cambiamenti esistenziali capaci di stimolare neurogenesi, sinaptogenesi e sopravvivenza neuronica.
[4] Dalla C., et al. Female rats learn trace memories better than male rats and
consequently retain a greater proportion of new neurons in their hippocampi. Proceedings of the National Academy of Science USA 106 (8), 2927-2932, 2009.
[5] Dalla C. & Shors T. J. Sex differences in learning processes of classical and operant conditioning. Physiology & Behavior 97 (2): 229-238, 2009. L’articolo è stato pubblicato sul numero del 25 maggio 2009 della rivista, la citazione nel testo della relazione tenuta nel mese di marzo e successivamente pubblicata sul sito di “Brain, Mind & Life” fa riferimento ad una versione anticipata fornita dagli stessi autori.
[6] Da frazioni di secondo a pochi secondi.
[7] Naturalmente la domanda è da intendersi nel contesto qui delineato; per quanto riguarda un’accezione più generale, si rinvia alla già citata nota: Note e Notizie 21-02-09 Come i nuovi neuroni influenzano la codifica della memoria.
[8] Riportato nella rassegna già citata nel testo: Tracey J. Shors, Saving New Brain Cells. Scientific American 300 (3), 40-49, 2009.
[9] L’espressione “intervento cognitivo attivo” - come la precedente, “operazione cognitiva” - è dell’autrice della nota; la Shors ed altri ricercatori si limitano a parlare di cognitive effort.
[10] Tracey J. Shors, Saving New Brain Cells. Scientific American 300 (3), 40-48, 2009.