UN PROGETTO PER LA DIAGNOSI PRECOCE DI AUTISMO

 

 

David Amaral, professore di neurobiologia e psichiatria a capo del Neurodevelopmental Disorders Institute della University of California, Davis, nella primavera di quest’anno ha avviato un ambizioso piano di ricerca multidisciplinare denominato “Autism Phenome Project”, che ha il precipuo obiettivo di individuare e definire i diversi tipi di patologia che attualmente sono compresi nell’unica categoria diagnostica dell’autismo (Ulrich Kraft, Detecting Autism Early. Scientific American MIND Vol. 17, No 5, 68-73, 2006).

Amaral, per individuare le basi neurobiologiche delle alterazioni che danno luogo al tipico difetto di interazione sociale degli autistici, ha seguito varie piste nel corso degli anni, fra cui quella dei cattivi collegamenti fra reti appartenenti a strutture che mediano le emozioni e reti neuroniche del neuroencefalo, rilevando che le alterazioni di sviluppo determinano uno squilibrio caratterizzato da un aumento proporzionale delle dimensioni dell’amigdala, riscontrabile nell’infanzia, e da un accresciuto volume dell’ippocampo che perdura anche nell’adolescenza (Schuman C. M. et al., The amygdala is enlarged in children but not adolescents with autism; the hippocampus is enlarged at all ages. J. Neurosci. 24, 6392-6401, 2004). Questi studi lo hanno portato ad approfondire i rapporti fra il sistema dell’amigdala ed il comportamento sociale nei primati, mediante varie ricerche condotte sui macachi, l’ultima delle quali è stata pubblicata nel mese di agosto di quest’anno (Baumann M. D. et al., The expression of social dominance following neonatal lesions of the amygdala or hippocampus in rhesus monkeys (Macaca mulatta). Behav. Neurosci. 120, 749-760, 2006).  

Il team di Amaral, che ha impiegato due anni per completare il disegno sperimentale di “Autism Phenome Project”, è costituito da ricercatori di base e medici altamente qualificati e, in prevalenza, esperti di patologie neuroevolutive. Lo studio, considerato il maggiore fra quelli attualmente in corso, è condotto su 1800 bambini dai 2 ai 4 anni, 900 dei quali affetti da autismo infantile, 450 da vari tipi e forme di ritardo dello sviluppo neuropsicomotorio, e 450 senza disturbi dello sviluppo. Le valutazioni sono ripartite in vari ambiti specialistici: genetica, immunologia, struttura e funzioni dell’encefalo, proteine ematiche, esposizione all’ambiente. Fra gli scopi della ricerca c’è l’individuazione di markers genetici significativi per una diagnosi neonatale. Un preciso orientamento diagnostico alla nascita potrebbe consentire un intervento precoce, probabilmente in grado di agire positivamente sullo sviluppo neurocognitivo migliorando, in prospettiva, anche la qualità della vita futura dei bambini affetti.

All’International Meeting for Autism Research, tenutosi a Boston nel maggio dello scorso anno, il gruppo di ricerca di Amaral aveva presentato i risultati preliminari di uno studio in cui si mettevano a confronto valori e dati provenienti da campioni ematici di 70 bambini autistici dai 4 ai 6 anni, con quelli ottenuti da 35 coetanei selezionati casualmente fra i normodotati. Le significative differenze rilevate, fra cui spiccavano un numero costantemente più elevato di linfociti T e B negli autistici, accanto ad elementi di diversità rilevati in oltre cento proteine ed altre molecole plasmatiche, hanno ispirato l’idea di questo progetto molto più articolato e condotto su vasta scala.

In molte occasioni e in varie sedi, la scuola neuroscientifica di BRAIN MIND & LIFE ha sostenuto l’utilità di considerare ogni bambino con tratti autistici nella sua specificità, approfondendo la conoscenza delle sue peculiarità in termini biomedici e psicologici, non stancandosi, durante tutto l’iter  del trattamento volto a promuovere lo sviluppo di abilità, di continuare a riflettere, formulando ipotesi e cimentandole con l’esperienza pratica, per cercare di capire, comprendere, comunicare e diagnosticare ininterrottamente. Questo atteggiamento è osteggiato duramente in Italia, anche sulla base di meri pregiudizi, da parte di molti “riabilitatori” e di talune scuole psicologiche auto-costituite, che annoverano presunti esperti di autismo infantile. Costoro insegnano e praticano regole rigide e severe, prive di qualsiasi fondamento scientifico e derivate da una erronea generalizzazione della prognosi dei casi più gravi non trattati, e perciò, ad esempio, proclamano e sostengono: “gli autistici sono sempre privi di parola, perciò va negato loro il trattamento logopedico”. Affermazione che, oltre ad essere contraria al vero nella premessa, è aberrante nella conclusione: la promozione di abilità comunicative dovrebbe essere impiegata proprio per cercare di interrompere, almeno in parte, il circolo vizioso che si stabilisce fra il difetto di una specifica funzione e il difetto globale di sviluppo neuropsichico. Tali posizioni preconcette, che rischiano di compromettere il futuro di bambini con tratti autistici ma con notevoli potenzialità per lo sviluppo di abilità di relazione e comunicazione, trovano sostegno in quei terapisti poco propensi ad affrontare anni di lavoro duro e frustrante, nella prospettiva di risultati molto limitati e scarsamente apprezzati in ambito professionale.

Non si può negare che la costituzione di un’unica categoria che include difetti citogenetici noti, alterazioni di un singolo gene, encefaliti, ecc., abbia facilitato superficiali generalizzazioni nei coordinatori sanitari, negli amministratori delle strutture diagnostico-riabilitative, nei comunicatori e divulgatori scientifici, e perfino negli addetti ai lavori; apparentemente con la sola contropartita positiva di una maggiore possibilità di finanziamento delle ricerche, così come è già accaduto per altri gruppi di patologie riunite nell’ultimo quindicennio sotto un’unica etichetta (demenza, cancro, diabete, ecc.).

L’Autism Phenome Project va proprio contro questa tendenza, come spiega Thomas N. Insel, direttore del National Institute of Mental Health (NIMH), il quale afferma che la molteplicità di competenze e prospettive specialistiche consentirà di fondare una conoscenza nuova e particolare dei diversi processi eziopatogenetici che conducono a manifestazioni cliniche apparentemente simili. Insel sostiene che, sebbene si tratti di un’impresa monumentale che richiederà molti anni, va proseguita e condotta a termine, perché riuscirà ad accorciare di alcuni decenni la strada verso la diagnosi precoce e la terapia di queste gravi alterazioni dello sviluppo neuropsichico.

 

L’Istituto M. I. N. D. (Medical Investigation of Neurodevelopmental Disorder) della UC Davis è un centro di cooperazione per la ricerca e la terapia dell’autismo, per molti aspetti unico nel suo genere: scienziati, medici, genitori, educatori e terapisti concorrono ai comuni obiettivi dell’istituzione. Per ulteriori informazioni si può consultare il sito web www.mindinstitute.org . L’autrice della nota ringrazia Giuseppe Perrella con il quale ha discusso l’argomento, ed Isabella Floriani per la correzione della bozza.

 

Diane Richmond

BM&L-Novembre 2006

www.brainmindlife.org