IL RECUPERO DA ICTUS E IL CASO DEGLI ICTUS SILENTI

 

 

L’interruzione dell’apporto ematico ad un territorio vascolare cerebrale per una causa ostruttiva od emorragica, quando non risulta fatale per l’individuo, produce un danno delle reti neuroniche espresso in una patologia neurologica debilitante e invalidante definita ictus[1], che costituisce nel mondo la terza causa di morte e nel nostro Paese rappresenta una delle prime cause di disabilità dell’anziano, con oltre 500 nuove diagnosi al giorno e 186.000 all’anno (v. Note e Notizie 31-10-09 Ictus e relazioni sociali).

L’occlusione o la rottura interessa più di rado il circolo posteriore, mentre nei casi più frequenti riguarda un vaso del circolo cerebrale anteriore ed esita nelle manifestazioni cliniche più comuni, ossia l’emiplegia, l’afasia e l’emianopsia. In generale, a seconda del vaso colpito, varia nella presentazione clinica secondo uno spettro sindromico molto articolato, che include sintomi riconducibili alle funzioni dei quattro lobi cerebrali secondo le specializzazioni di ciascun emisfero e, nel caso di infarti posteriori, sintomatologia cerebellare e troncoencefalici.

Durante un ictus, i neuroni privati di ossigeno ed energia perdono le loro funzioni metaboliche fondamentali nel giro di secondi e mostrano segni di danno strutturale dopo soli 2 minuti. L’impossibilità di effettuare i processi fisiologici dipendenti dall’energia conduce i neuroni allo scompenso idro-elettrolitico, con impossibilità di mantenere i gradienti ionici trans-membrana e il rapido precipitare nelle cascate di eventi che portano alla morte cellulare apoptotica o necrotica, con la conseguenza di danni sensoriali, motori e cognitivi.

Sebbene il danno da ictus possa essere devastante, molti pazienti sopravvivono all’evento acuto e vanno incontro ad un parziale recupero spontaneo, che può essere notevolmente accresciuto dalla terapia riabilitativa. I modelli sperimentali di ictus[2], a differenza di quelli impiegati per le malattie neurodegenerative, sono diretti, esattamente equivalenti alle condizioni umane e sviluppano il danno in pochi minuti; per queste ragioni si sono rivelati molto efficienti nella ricerca e si spera possano consentire lo sviluppo di strategie per la promozione della plasticità al livello delle sinapsi e dei circuiti per il recupero funzionale.

Murphy e Corbett della University of British Columbia (Canada) hanno realizzato una rassegna delle maggiori ricerche in questo campo, focalizzando la loro attenzione sugli eventi associati alla riparazione e al compenso conseguente al danno, tralasciando i meccanismi dello squilibrio ionico e della morte cellulare che hanno costituito l’oggetto di altre rassegne recenti (Timothy H. Murphy & Dale Corbett, Plasticity during stroke recovery: from synapse to behaviour. Nature Reviews Neuroscience 10, 861-872, December 2009).

I due autori discutono i progressi nella conoscenza dei processi alla base del recupero funzionale, e sottolineano i risultati che dimostrano la grande capacità del cervello adulto di andare incontro a modificazioni plastiche in grado di promuovere un compenso spesso efficace. In particolare, danno risalto alla similitudine fra alcuni processi che avvengono nello sviluppo embrionario e gli eventi che hanno luogo nella risposta del tessuto encefalico adulto alla perdita di una sua parte per un evento patologico acuto. E’ interessante la lettura della messe di dati che pone in relazione la plasticità dipendente dall’attività e il recupero post-ictale.

Evidenze emerse dai modelli animali, comprovate e confermate oltre ogni dubbio, indicano l’esistenza di una finestra temporale di neuroplasticità che si apre subito dopo l’evento lesivo, consentendo di ottenere il massimo risultato dalla costituzione di nuovi collegamenti e supplenze funzionali, e poi si richiude, lasciando alla generica e generale capacità di modificazione strutturale dipendente dall’apprendimento, l’ulteriore possibilità di miglioramento.

I meccanismi di plasticità che si sono rivelati più importanti sono 1) la ricostituzione dei collegamenti dipendente dall’attività (activity-dependent rewiring) e 2) il rinforzo sinaptico.

Per poter migliorare il recupero si dovranno ancora compiere passi in avanti[3] nella comprensione delle modalità ottimali per impegnare e modificare le reti nervose sopravvissute, al fine di indurle ad esercitare un ruolo di compenso più esteso di quanto non si riesca a fare con gli attuali metodi riabilitativi.

La rassegna termina discutendo un problema relativo al danno da lesione cerebrovascolare acuta ancora poco considerato nelle scuole mediche di tutto il mondo, ossia quello degli ictus silenti. Alcuni studi recenti, confermando una tesi sostenuta da tempo dal nostro presidente, Giuseppe Perrella, suggeriscono che una quota da definire, ma certamente non piccola di accidenti vascolari cerebrali, non viene diagnosticata, principalmente perché non emerge con una sintomatologia clinica evidente e riconoscibile. Murphy e Corbett affermano che probabilmente abbiamo grandemente sottostimato la prevalenza di questa patologia, e fanno riferimento ad un quadro che è stato definito covert stroke.

Nel covert stroke (o ictus nascosto o silente) sono costantemente assenti segni come la paralisi (o un livello di infermità motoria minore, ma con evidenza soggettiva ed obiettiva), evidenti disturbi di tipo afasiologico, con sintomi relativi alla produzione e/o alla comprensione del linguaggio verbale orale e/o scritto (alessia/dislessia acquisite), riduzione visiva per emianopsia, quadrantopsia e simili. Il danno, in molti casi localizzato mediante risonanza magnetica nucleare (RMN) nei territori subcorticali del telencefalo, è dovuto a deficit di perfusione dei piccoli vasi e spesso evolve erodendo progressivamente le funzioni cognitive delle persone afflitte. In termini epidemiologici si ritiene che la sua prevalenza nella popolazione generale sia di molte volte maggiore di quella dell’ictus clinicamente rilevato e il suo rischio aumenti in percentuale con l’età, se vi è stato in precedenza un attacco ischemico cerebrale e se coesistono patologie cardiovascolari, disturbi psichiatrici di tipo depressivo e demenza neurodegenerativa[4].

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Floriani per la correzione della bozza e invita a leggere le numerose recensioni di argomento connesso pubblicate nelle “Note e Notizie” e, in “Aggiornamenti”, la scheda introduttiva: Ictus cerebrale – Ricerca e prospettive per l’ictus.

 

Diane Richmond   

BM&L-Dicembre 2009

www.brainmindlife.org

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



[1] Come è noto, nei paesi anglofoni il termine corrispondente è “stroke”, che designa la patologia cerebrovascolare acuta dovuta più spesso a cause ostruttive (trombosi su base arteriosclerotica, embolie da fibrillazione atriale, ecc., ed evolventi in ischemia-infarto-necrosi) o emorragiche (rottura di aneurismi, di malformazioni artero-venose, ecc.), ma anche di altra natura (neoplastiche, ecc.).

[2] Si veda, ad esempio, Note e Notizie 25-03-06 Ictus: tre nuovi modelli per la terapia, nota riportata anche nella scheda introduttiva dell’Aggiornamento (vedi in AGGIORNAMENTI – Ictus cerebrale – Ricerca e prospettive per l’ictus).

[3] Uno dei problemi da risolvere è l’attuale impossibilità di mettere in relazione con assoluta certezza un parametro di recupero funzionale, stimato mediante misura prestazionale e osservazione comportamentale, con il suo specifico correlato di modificazioni cellulari e molecolari rilevabili durante l’evoluzione riparativa della lesione.

[4] Si consiglia la lettura degli articoli sugli infarti cerebrali silenti (una review del 2007, uno studio mediante RMN e un lavoro sui rapporti fra lesioni cerebrali silenti e rischio di demenza) riportati nella bibliografia della rassegna di Murphy e Corbett ai numeri 133, 134 e 135.