Herbarium

 

Fin dal 5000 avanti Cristo i Cinesi possedevano una ricca farmacopea basata su infusi ed estratti di piante; gli Assiri e i Babilonesi avevano tradizioni di fitoterapia dalla stessa epoca o, forse, da tempi ancora più antichi. Seguirono gli Ebrei, sviluppando in forma più sistematica ed organizzata quei saperi, che certamente appartennero anche ai Greci da tempi remoti, come ci si rende conto studiando i testi di Aristotele e di Ippocrate. Si citano al riguardo Galeno e Plinio, ma forse l’inventario più completo ed attendibile delle piante medicinali conosciute nell’antichità è il “De materia medica” attribuito a Dioscoride in cui si descrivono ben 600 piante.

Se solo si pensa al tempo di Socrate, in cui era molto diffuso ed apprezzato il “ciceone”, una bevanda a base di orzo e menta, così come era temuta la mortale cicuta, ci si rende conto dell’importanza del sapere sulle erbe.

L’invenzione della stampa a caratteri mobili, inaugurando l’era dei libri di botanica, consentì di sottoporre al vaglio critico, facilitato dalla larga diffusione, un sapere che si tramandava in forma personale e diretta.

Questi libri, di straordinario valore culturale, hanno però scarso valore scientifico, in quanto gravati da dati falsi, miti, pregiudizi, invenzioni “artistiche” e contraffazioni da parte di chi interpretava in chiave “magico-poietica” il ruolo di detentore di un sapere-potere esclusivo, protetto dalla pratica del segreto e dal comune ed inconsapevole desiderio di preservare il valore suggestivo della mistica di un mistero naturale.

Lo studio della botanica moderna e la biologia vegetale in tutte le sue branche, hanno finalmente consentito di impiegare principi ricavati dalle piante non più seguendo riti, miti ed esperienze di pochi, ma le procedure del metodo sperimentale. Se questo ha privato il mondo degli erbari del loro straordinario fascino alchemico del passato, ha però conferito loro la più discreta, ma certamente più straordinaria, attrattiva del vero scientifico.

I libri antichi, così come le tradizioni popolari, prima dello “studio sul campo”, hanno rappresentato fin dagli albori delle moderne discipline sperimentali, una fonte per l’indagine chimica e, poi, farmacologica sulle molecole che potevano essere ricavate dalle piante. Contrariamente a quanto pensa il grande pubblico della comunicazione pubblicitaria di massa, non esiste una contrapposizione fra “erba buona” e “farmaco cattivo”, perché la storia della farmacologia comincia negli erbari, ad opera di chimici che tendevano a purificare ed isolare solo la parte desiderata della pianta.

Nel mondo esistono oltre 1800 erbari pubblici, dove si conservano più di 175 milioni di tipi di piante essiccate, rappresentanti delle 250.000 specie note e di molte non ancora identificate per un totale, secondo alcune stime, di oltre 800.000 specie. E’ comprensibile come sia possibile ad ogni empirico di turno di giocare a fare l’antico erborista, e come il progresso scientifico nella conoscenza di questo immenso e meraviglioso patrimonio proceda lentamente. Ma noi riteniamo che valga la pena di attendere la certezza dell’esperimento per non rischiare di bere la cicuta credendo che si tratti del ciceone.

Oggi, nonostante i progressi nelle conoscenze, miti, fantasie ed errori vecchi persistono nelle convinzioni di molti, e a questi se ne aggiungono costantemente di nuovi. “Herbarium” vuole affrontare alcuni di questi argomenti, per proporre appunti di lezioni che la natura ci impartisce attraverso queste sue straordinarie creature.

 

 

 

 

 

Aloe

Cos’è l’aloe e cosa c’è di vero nelle sue proprietà antineoplastiche



Aloe [dal Greco αλόη][1] è il nome che si dà a un genere di piante della famiglia delle Gigliacee o Liliaceae con foglie basali e fiori spigati, che si presenta in varietà conosciute fin dall’antichità per il succo che se ne estrae. Nelle Antille e in Sud-Africa l’Aloe può essere alberiforme, e questo nome si dà anche ad un albero della famiglia delle Euforbiaceae, del genere Agalloca (Aquilaria agallocha), originario del Messico e dell’Estremo e Medio-Oriente, il cui legno, oltre ad essere usato in ebanisteria, viene bruciato per gli effluvi profumati che si generano dalla sua combustione.


Un po’ di storia

L’Aloe riprodotto nei disegni, nei dipinti e, poi, nelle incisioni e nelle stampe della tradizione culturale del vecchio continente, è l’Aloe barbadensis, detto anche Aloe vera. Fin dal tardo Medioevo è una pianta conosciuta in Italia dai pittori che, nelle loro botteghe, estraggono dal suo succo diverse sostanze con le quali preparano le più varie miscele cui, invariabilmente, si dà il nome di aloe. Si può rilevare che ai nostri giorni accade qualcosa di simile quando l’industria cosmetica attribuisce il nome del genus di questa pianta a creme emollienti che contengono principi attivi estratti da A. barbadensis.

Il sapere empirico più sistematico su questo vegetale, prima dell’epoca delle analisi chimiche, si deve proprio agli artisti italiani del Rinascimento che, indotti ad impiegarlo per motivi di tecnica pittorica, ne studiarono molte proprietà. A quel tempo, infatti, le materie coloranti nere erano assolutamente bandite dalla tavolozza perché davano neri opachi e poco intensi; si preferiva usare i bruni perché più caldi, profondi, trasparenti, intensi e spesso di grande estensione tonale. Le tinte del nero si ottenevano con opportune mestiche dei bruni con altri colori. Fra le materie coloranti brune, solo due furono estesamente impiegate: l’Asfalto e l’Aloe.

L’Asfalto, detto anche vernice nera o segreto di Apelle o Bitume di Giudea, ottenuto mediante la decomposizione di materie vegetali, era di colore scurissimo e veniva adoperato dai grandi Veneti come Tiziano, Giorgione, Tintoretto e, in genere, dai pittori che dipingevano su fondo scuro. Proprio la scuola veneta del XVI secolo, che ne fece il più ampio utilizzo, ne raccomandava l’uso solo per l’imprimitura e per la velatura trasparente di tutto il dipinto, sconsigliandolo nella mescolanza con altri colori. Al contrario, l’Aloe o succo di Aloe naturale veniva ritenuto molto più versatile e, pertanto, fu impiegato in tutte le botteghe e praticamente da tutti gli artisti che ne conoscessero l’esistenza. A questo proposito può essere interessante rileggere i suggerimenti di Leonardo da Vinci nella sintesi di Carlo Linzi[2] che, in questo scritto del 1893, ci testimonia come a distanza di quattro secoli ben poco fosse mutato al riguardo.


               Aloe (succo di) Aloe naturale è un prodotto escretorio che si ottiene col mezzo delle incisioni, che si fanno alle foglie di varie specie di aloe, e in particolare dell’aloe spicata, dell’aloe perfoliata, ecc.
               Queste piante appartengono alle gigliacee e all’esandria monoginia. Questo succo estratto naturale, trasuda nel luogo delle incisioni, e si rende concreto sulle medesime foglie. Esso si presenta in piccole lagrime granulate trasparenti, di color rosso, bruno oscuro, e a questo stato porta il nome di aloe lucido. Questo aloe è rarissimo e non si incontra che nei gabinetti di storia naturale. Dell’aloe del commercio se ne distinguono tre specie, cioè: l’aloe soccotrino, l’epatico e il caballino o cavallino.
               La prima specie si chiama così dall’isola di Soccotra, da cui veniva anticamente, sarebbe meglio chiamata aloe citrino.
               La seconda detta epatico, od aloe giallo.
               La terza impurissima chiamata aloe cavallino, perché raccomandata per la cura dei cavalli, benché erroneamente.
               Queste tre specie di aloe, sono i prodotti di una sola operazione ottenuti per decantazione. […]
               Leonardo consiglia l’uso dell’aloe cavallino in miscuglio cogli altri colori, senza che arrechi danno, e per velatura totale, quando sia compiuto il dipinto; tanto disciolto ad olio che nell’alcool.
               Con questo nome però non deve aver inteso quello che ora viene sotto tal nome e lo deve aver confuso con l’aloe decantato da materie eterogenee, perché trasparente […]. Quantunque Leonardo suggerisca l’aloe puramente disciolto nell’alcool o nell’acqua tiepida, per istenderlo quale velatura totale ed intonazione e difesa del dipinto, ciò è dannoso ammenoché non sia in strato sottilissimo, come riscontrasi in quadri sul finire del secolo XV, in tavola e in piccolissime dimensioni; giacché volatilizzando l’alcool, resterebbe la resina inaridita senza coefficiente, fragile come nella sua forma cristallina. [3]


La discordanza fra il professor Linzi e Leonardo da Vinci è più apparente che reale in quanto, molto probabilmente, nel Rinascimento l’epiteto “caballino” stava ad indicare una varietà della pianta e non la forma di estratto che si è poi continuato a somministrare agli equini. Infatti, la serie di operazioni che vanno dalla esfoliazione alla decozione e decantazione, al termine delle quali si ottenevano cristalli gialli trasparenti e cristalli resinosi bruni, veniva comunemente eseguita nelle botteghe degli artisti. Pertanto il procedimento ricostruito da Linzi doveva essere simile se non identico a quello impiegato da Leonardo che lo sottintende, ritenendolo pratica nota e banale, “affare di bottega”, così come la preparazione di ogni altro colore. Appare invece rilevante l’impiego come purgante che ne faceva il genio toscano, in quanto l’indubbia efficacia in tal senso dei composti antrachinonici contenuti nel vegetale è stata oggetto di studio della moderna farmacologia, che ne ha ricavato da tempo medicamenti efficaci, così che l’Aloe, accanto a Càscara, Sena e Rabarbaro, ha rappresentato una fonte di farmaci per la terapia delle stipsi. Non è dato sapere quanto fosse originale l’idea di Leonardo, ma certamente non doveva apparire bizzarra come l’assunzione di un qualsiasi altro colore della tavolozza, se secondo le cronache dell’epoca pare che Cristoforo Colombo portasse con sé l’Aloe come panacea.


Questi brevi appunti di storia credo che possano già dare un’idea di quanto questo vegetale appartenga alla nostra cultura e quanto poco appropriato ci appaia che in un articolo redazionale della maggiore rivista di divulgazione scientifica italiana sulle presunte proprietà “anticancro” di questa pianta, la si definisca “esotica”. Secondo questo criterio a maggior ragione si dovrebbero considerare esotici il pomodoro e la patata che, come è noto, sono stati portati in Europa dall’America molti anni dopo gli ammaestramenti di Leonardo sulle virtù del nostro vegetale.


Un po’ di scienza

E’ in fase di sperimentazione una molecola derivata da A. barbadensis un idrossi-antrachinone detto aloe-emodina, la cui proprietà farmacodinamica saliente consiste nel suo accumulo selettivo in vari tipi di cellule neoplastiche, determinandone l’apoptosi, ovvero la morte cellulare programmata. Sembra che l’aloe-emodina, a differenza di molti altri farmaci antineoplastici, non esplichi i suoi effetti lesivi su varie linee cellulari fra cui quelle ematiche ed i fibroblasti. La sua azione sarebbe mediata da recettori di membrana presenti solo su cellule neoplastiche che ne consentono l’ingresso, cui segue l’accumulo sugli organuli citoplasmatici. Lo studio morfo-funzionale degli effetti è stato facilitato dalla spontanea fluorescenza giallo-arancio, tipica di questo antrachinone, che permette di seguirne gli spostamenti e misurarne l’accumulo senza ricorrere a speciali tecniche di colorazione.

Sembra che i tipi istologici delle neoplasie di cui l’emodina determina l’arresto della crescita e la regressione, siano i tumori neuroectodermici (tumori sperimentali indotti in ceppi di topi, simili a quelli delle neuroectodermosi o facomatosi umane, quali la Sclerosi Tuberosa di Bourneville o la Neurofibromatosi di Von Recklinghausen), il neuroblastoma e il sarcoma di Ewing.

L’efficacia su tipi di neoplasie che hanno una elevata incidenza in età pediatrica ha fatto nascere molte aspettative, tuttavia è necessario precisare che lo studio è ancora nella fase della sperimentazione animale.


Questi pochi dati sono sufficienti per comprendere cosa ci sia di vero in titoli di articoli quali: “l’aloe cura il cancro” o “l’attività anti-cancro dell’aloe”. Anche se non c’è una deliberata malafede, si rischia di far intendere al lettore che non ha nozioni di biologia, che una pianta, ovvero un organismo costituito da decine di migliaia di tipi molecolari organizzati secondo complessi piani di architettura funzionale, sia la stessa cosa di una sola molecola, isolata, purificata, concentrata migliaia di volte e dosata per essere efficace e non tossica. Questo modo di fare informazione scientifica, che punta a suggestionare e a colpire con modalità degne degli antichi ciarlatani, contribuisce a creare una visione falsata della realtà e ad accrescere la diffidenza in chi, pur non possedendo specifiche nozioni, percepisce il suono falso dell’ “esca” giornalistica.

 Dovrebbe essere nozione consolidata sui banchi di scuola che gli organismi vegetali e animali sono una miniera di miliardi di composti dotati di proprietà in gran parte ancora da scoprire. Con le conoscenze e le tecnologie di cui disponiamo attualmente, sarebbero necessari centinaia di anni per sperimentare tutte le molecole che è ragionevole supporre in grado di svolgere una qualche attività antineoplastica.


 I chemioterapici antineoplastici di origine vegetale non sono certo una novità, basti pensare alla Vinblastina e alla Vincristina, che si impiegano da oltre trent’anni. Si tratta di due alcaloidi della Vinca rosea o Pervinca che agiscono come veleni del fuso mitotico. Certo nessuno ha mai pensato di dire delle persone ammalate di Hodgkin o Leucemia e trattate con questi farmaci, che “si curano con la Pervinca”, pertanto non si comprende perché oggi si debba dire, per una qualche moda sotto-culturale, che chi assumerà quel particolare idrossiantrachinone nelle dosi che lo rendono medicamento antineoplastico “si curerà con l’Aloe”. E’ un’affermazione erronea.


Un’ estratto di Aloe ottenuto dalla pianta intera esiste da molto tempo, si chiama fernet.

 Ma speriamo che chi legge queste righe non voglia suggerire strane idee ad un noto produttore di liquori; non mi meraviglierei, con i tempi che corrono, di vedere trasformato un comunissimo amaro nell’ultimo ritrovato anti-cancro.


                                                              G. Perrella-BM&L




[1] In Italiano il vocabolo “aloe” è un sostantivo maschile indeclinabile, anche se si trova concordato al femminile in molti testi antichi e nel nome volgare “Aloe vera”.

[2] Carlo Linzi fu celebre pittore e studioso della chimica del colore, gli si attribuisce la scoperta della procedura e dei metodi della pittura rinascimentale ed il merito di aver radicalmente innovato le scienze del restauro pittorico. Fu docente presso la Reale Accademia di Monaco di Baviera ed ebbe commissioni da molte corti europee e dal governo argentino. La bellezza dei suoi dipinti fu celebrata da Fogazzaro nel romanzo “Lelia”.

[3] Carlo Linzi: Relazione al Congresso Internazionale di pittura in Monaco di Baviera, 1893 (manoscritto), citato in von Adolf  Wilh. Keim, Technische Mitteilungen Für Malerei, München, 1893-1895; successivamente pubblicato per i tipi di Guglielmo Nardi in Treviso nel 1895 in soli 50 esemplari. La monografia fu ripubblicata da Hoepli nella collezione dei Manuali nel 1930 con il titolo: “Tecnica della Pittura e dei Colori – L’arte del dipingere ad olio secondo Raffaello, Tiziano, Giorgione, Tintoretto”. La citazione è tratta dalla quarta edizione anastatica del 1975.

 

 

 

 

 

Il Ferro degli Spinaci

La forza delle convinzioni popolari si basa sull’inattaccabilità di un sapere acritico che rimane sordo alle smentite della scienza



Uno stimato chimico di fine Ottocento che analizzava la composizione elementare dei vegetali, riportando il dato relativo al contenuto in ferro degli spinaci, sbagliò il posto della virgola dei decimali, accrescendone involontariamente il potere “antianemico”. Nasce così il mito degli spinaci “ricchi di ferro”. Non sono valse le innumerevoli smentite del secolo successivo ad intaccare la fede incrollabile nel potere di questa verdura: ancora oggi capita di sentire i soliti bene informati, sempre prodighi di consigli, citare come fosse una fonte accademica di prestigio il celebre disegno animato nato negli anni Trenta negli USA: Braccio di Ferro, l’esile marinaio che impiegava gli spinaci come pozione magica.

Isabella Floriani-BM&L

 

 

 

 

 

 

La Segale Cornuta

Da un errore millenario impariamo molte lezioni oltre alla prudenza nell’uso delle erbe



La Segale o Segala, Graminacea annua o bienne (Secale cereale) originaria dell’Asia meridionale fu importata in Italia e in Europa dagli antichi romani che ne diffusero la coltivazione e l’impiego, insieme con il sapere tradizionale dei popoli che la conoscevano da tempi lontani. La particolare resistenza al freddo ne favorì la diffusione in regioni fredde, fino al 69° di latitudine Nord e fino ai 2000 metri di altezza. La farina di segale fu largamente impiegata in tutta quella regione che corrisponde alla Mitteleuropa, ma soprattutto nei territori che oggi appartengono alla Francia, alla Germania, alla Polonia e alla Russia, dove le condizioni climatiche e talora del terreno rendevano particolarmente problematica la coltivazione del grano.

La pianta, però, non era solo una fonte alimentare ed il suo impiego empirico per da parte di erboristi e guaritori di vario genere era mediato, circondato e giustificato da una tradizione di storie costruite come leggende, probabilmente frutto di una confabulazione magico-narrativa che nasceva dal bisogno di interpretare gli episodi di allucinosi, eccitazione, malattia e morte causati dall’ingestione di preparazioni del vegetale. Gli esperti di erbe in epoca medievale sapevano che la segale le cui spighe presentavano delle sporgenze in forma di corni nero-violacei, aveva proprietà inusitate. Questa “segale cornuta” era ritenuta da alcuni una specie a parte e da altri una varietà della pianta più comune.

Per renderci conto di quale fosse la prospettiva, che per secoli e fino ad alcuni decenni fa si assumeva nei confronti di effetti prodotti dalla segale cornuta, ci rifacciamo ad un episodio accaduto, secondo le cronache, nel tardo Medioevo.


Uno sguardo al passato

La scena si svolge in una strada popolare di Firenze che fa angolo con Via Vinegia, oggi detta Via del Parlascio[1], ma che nel tempo ha avuto altri nomi, fra cui quello di “Via delle Serve Smarrite”. E sembrano proprio delle serve smarrite le donne che si chiamano, si affaccendano, si affrettano, si scambiano ordini concitati e frasi sommesse e smozzicate, mentre preoccupate e spaventate accorrono presso il portale del palazzo dal quale si vede l’uscio aperto della dimora di una giovane donna posseduta da un demonio o colpita da un morbo ignoto che le provoca convulsioni e spasmi insopportabili, cui reagisce con urla terribili ed oscure imprecazioni in un idioma incomprensibile, quando non è colta da accessi di vomito. L’urgenza per l’apparente imminenza di morte e la terrifica reazione al dolore di questa contadina venuta da lontano, forse dalla Germania in cerca lavoro, consigliano che si chiami il medico, il cerusico, il ciarlatano ed il prete, tutti pregando o imprecando, nel timore che intervenga la guardia del Bargello ed arresti la sofferente per il pubblico turbamento che arreca. Infatti, la sottrazione allo sguardo determinerebbe la fine dell’osservazione prima che si sia riuscito a sapere e capire. Si, perché il bisogno maggiore delle donne che sono accorse è proprio questo: conoscere la causa. Qualcuno mormora che la fanciulla fosse rimasta accidentalmente incinta e che un’altra contadina sua connazionale le avesse dato un’erba per abortire. Qualcun’altra lo esclude e sostiene che la causa è nel pane, il pane di segale che mangiano quelle serve e contadine immigrate. Ma c’è chi giura di aver visto uomini lombardi, romani e fiorentini, affetti dai sintomi dello stesso male.

Sia l’intossicazione dovuta all’assunzione di pane di segale, sia quella conseguente all’impiego abortivo del vegetale, dovevano essere relativamente frequenti all’epoca, ma questi eventi erano raramente descritti e studiati. Il sapere degli erboristi era vario e contraddittorio al riguardo: taluni reputavano la segale cornuta fonte di forza e coraggio, altri la ritenevano pianta tossica, il cui veleno risultava di incerta efficacia. In assenza di una definita conoscenza scientifica, alcuni erano portati a valorizzare e generalizzare una personale esperienza, quale quella degli effetti psicodislettici, che potevano andare da lievi alterazioni delle percezioni a vere e proprie allucinosi; così come altri potevano rimanere fedeli ad aforismi, motti, detti, proverbi che cristallizzavano in formule talvolta poetiche o magico-rituali, un sapere meta-storico che è giunto fino ai nostri giorni[2].

La segale cornuta poneva una sfida che il sapere del tempo non era in grado di raccogliere: come vedremo, sarebbe stata necessaria la nascita di nuove scienze ed il loro sviluppo per un impiego adeguato al fine di scoprire cosa si nascondesse nei corni del vegetale.

La speranza delle donne fiorentine di conoscere il perché di quei sintomi prima dell’arrivo della guardia del Bargello, certamente delusa in quella circostanza, è emblematica di un interrogativo che sarebbe rimasto ancora per secoli senza risposta.

La lunga storia delle intossicazioni epidemiche da pane di segale, tanto frequente nel Medio Evo ma continuata fino a mezzo secolo fa[3], sembrava non poter avere fine; un flagello inevitabile sia perché non si riusciva a distinguere la pianta buona da quella potenzialmente tossica, sia perché quello di segale era il pane dei poveri di tutta l’Europa continentale e non si vedeva come sostituirlo, tanto che il rischio si considerava parte della condizione di vita delle classi meno abbienti. La sindrome, endemica in alcune regioni, è stata poi definita Ergotismo[4] Epidemico, distinto in due forme: Ergotismo Gangrenoso ed Ergotismo Convulsivo o Spasmodico.


Ergotismo Gangrenoso. In questa patologia la contrazione della parete dei medi e piccoli vasi arteriosi, riducendo l’apporto nutritivo del sangue ai tessuti, determina varie forme di sofferenza e morte cellulare o necrosi. Infatti, la patogenesi si incentra sulla reazione arteriospastica acuta che, a differenza dei fenomeni acuti transitori, si protrae fino alle conseguenze più gravi. Questa forma ebbe la massima diffusione in Francia fra il IX ed il XIV secolo. La persona colpita avvertiva sensazioni di freddo alternate a violenti dolori urenti ad un piede, ad una gamba, più raramente ad un braccio, che si infiammava in forma sempre più grave. Ne seguiva una gangrena secca o torpida, con perdita indolore dei tessuti che dalle unghie poteva giungere all’intero arto; con il procedere della malattia si sviluppava una gangrena viscerale che portava a morte entro breve tempo. L’estensione delle epidemie e la conseguente gravità sociale della malattia, si ridusse solo quando il grano cominciò a rimpiazzare la segale come alimento anche per le classi più disagiate; successivamente si ebbero ulteriori miglioramenti per lo sviluppo in agricoltura di tecniche più avanzate di aratura e procedure di drenaggio più profonde ed efficaci.


Ergotismo Convulsivo o Spasmodico. In questa forma l’interessamento del sistema nervoso è più esteso e grave e, sebbene il quadro generale sia dominato dalla sintomatologia neuromuscolare, nei casi più gravi sono evidenti segni di encefalopatia focale e diffusa. Le manifestazioni dovevano essere simili a quelle descritte nell’episodio accaduto a Firenze, anche se il fatto narrato deve ritenersi eccezionale, non solo per il luogo geografico e le condizioni alimentari di una delle città più ricche e prospere del Medioevo, ma anche per l’epoca in cui si sarebbe verificato. Infatti, le prime descrizioni sistematiche di epidemie di ergotismo convulsivo risalgono al 1500 e riguardano popolazioni del Nord Europa e della Russia. In queste testimonianze del XVI secolo[5] si riporta la descrizione di una sintomatologia poi riscontrata fino ai nostri giorni: spasmi dolorosi della muscolatura volontaria e convulsioni, cui si potevano associare sintomi attribuibili ad interessamento del sistema nervoso autonomo. Circa il 10-20% dei colpiti moriva dopo un breve periodo di atroci sofferenze e molti dei sopravvissuti andavano incontro a demenza. L’ultima grande epidemia si ritiene sia stata quella che colpì la Russia nel 1926.


Secondo gli storici, queste terribili esperienze di malattie e di morte avevano lasciato una traccia definita ed indelebile nella cultura popolare e nel sapere medico, così che già in epoca tardo-rinascimentale la nozione della nocività della segale provvista di protuberanze doveva essere molto diffusa. Ma perché, allora, continuava a mietere tante vittime?

Oltre all’uso alimentare, una ragione ben documentata del suo impiego era l’azione abortiva.

L’efficacia di preparazioni di segale cornuta come abortivo era fuori di dubbio e le morti causate da intossicazione erano ridotte dalla particolare fisiologia della donna gravida. Inoltre l’aborto, peccato-reato inconfessabile dal Medioevo ai giorni nostri, era coperto da segreto e, così, segrete rimanevano le cause della morte di molte donne che assumevano la segale per eliminare il frutto di un concepimento indesiderato.

L’uso superstizioso-magico della pianta che ne facevano gli erboristi, era parte di una sotto-cultura con i propri luoghi, oggetti, riti e ruoli sociali, difficile da intaccare e modificare. Ogni pianta era il soggetto di una mitologia e l’oggetto speciale ed indivisibile di un sapere aforistico e narrativo, che non ammetteva ne’ la scomposizione dell’analisi, ne’ il vaglio dell’esperimento. Eppure senza ne’ l’una, ne’ l’altro ben poco si sarebbe potuto comprendere del mistero della segale cornuta. Si vuole che la chimica nasca nel Seicento ed il suo stesso nome, derivato dal Greco chimos che vuol dire succo [6], allude alla tecnica dell’estrazione da vegetali. Ma coloro che operavano con questi criteri scientifici erano pochissimi ed il loro sapere non faceva presa sui contemporanei[7].

Probabilmente il primo evento che ha dischiuso la strada allo studio scientifico, è stata la sottrazione del vegetale all’uso esclusivo degli erboristi: l’azione abortiva delle quantità tossiche delle preparazioni di megere e ciarlatani, suggerì alle levatrici l’impiego di quantità minori per accelerare il parto. Si era compreso che la tossicità era legata all’eccesso di contrazioni muscolari, quell’eccesso che faceva espellere il prodotto del concepimento prima della nascita, per cui si ipotizzò che un più moderato effetto potesse facilitare il parto fisiologico nelle donne che non avevano contrazioni efficaci. Durante il 1700 in varie località d’Europa le levatrici, ossia le ostetriche ante litteram, sulla base di osservazioni e valutazioni critico-empiriche, cercarono di definirne un impiego razionale giungendo a standardizzare il dosaggio della droga vegetale cruda. Tuttavia la prudenza, più che lo scetticismo, indusse  la maggior parte dei medici del vecchio continente ad osteggiarne l’impiego.

All’inizio dell’Ottocento un medico americano, John Stearns (1770-1848), venne a conoscenza dell’uso ostetrico della segale cornuta da parte di alcuni immigrati tedeschi e, convintosi della possibilità di impiegarla su una base scientifica, ne intraprese lo studio. Nel 1808 Stearns raccolse e pubblicò le sue osservazioni in una relazione che di fatto diede origine, non senza controversie,  all’uso terapeutico della droga [8] da parte di levatrici e anche di medici del nuovo continente. Usata per accelerare il parto, provocava frequentemente lesioni da ischemia del nascituro e, talvolta, la morte delle partorienti senza che fosse possibile stabilirne la causa, verosimilmente da attribuirsi in molti casi a rottura dell’utero o ad infarto del miocardio in donne cardiopatiche. La cattiva fama della segale cornuta era destinata a durare ancora a lungo.


Ma la Segale era innocente

Probabilmente è alla Microbiologia, ossia la scienza che studia gli organismi unicellulari, che si deve il ruolo decisivo nel chiarire il mistero di una “pianta cattiva” che ci ha accompagnato nella storia per secoli: la segale cornuta non esiste. Non solo non è una specie o una varietà della pianta, ma la presenza dei corni costituiti da un Ascomicete[9], la Claviceps purpurea, è espressione di una malattia di cui la segale è vittima.

La Claviceps purpurea, fungo parassita delle graminacee, è il microrganismo produttore di tutte le molecole responsabili degli effetti di cui si è fin qui discusso. Fra i cereali la segale è quella più facilmente parassitata dalla Claviceps le cui spore, portate dal vento e dagli insetti sui fiori, ne invadono gli ovari e sviluppano il micelio[10] che in seguito si organizza in sclerozi, ammassi di cellule molto compatti, di colore nero violaceo e a forma di speroni o corni sporgenti dalla superficie della spiga. Accadeva, perciò, che gli sclerozi di Claviceps venissero macinati con i grani di segale, contaminando la farina, oppure cadessero sulla terra dove, passato l’inverno, germinavano  producendo spore che perpetuavano l’infestazione. Oggi la segale può essere mondata asportando gli sclerozi secondo metodi legalmente standardizzati. Inoltre la contaminazione accidentale, dovuta alla diffusione delle spore provenienti da zone in cui si faceva sviluppare l’Ascomicete in campo aperto, é pressoché scomparsa perché attualmente la coltura, per scopi scientifici ed industriali, avviene in apposite vasche di fermentazione.

Si deve rilevare che in epoche più recenti il progresso delle conoscenze  è stato notevolmente rallentato da uno storico errore che portò ad attribuire ad altre cause i sintomi dell’intossicazione. Indagini epidemiologiche grossolane, destinate a divenire molto influenti perché a lungo non confutate, indicavano che la massima parte dei casi di questa sindrome si poteva mettere in relazione con la carenza di carne, latte e derivati nella dieta delle popolazioni colpite; conclusioni suffragate dall’evidenza sperimentale di un costante e diretto rapporto fra deficit di vitamina A ed insorgenza della patologia[11]. E’ perfino superfluo sottolineare come non vi fosse alcuna giustificazione scientifica per un nesso di causalità non basato sulla dimostrazione dell’esistenza di un rapporto etiopatogenetico, ma suggerito dalla semplice coincidenza della carenza di vitamina A nelle popolazioni interessate dalla patologia, e perciò fondato solo su un “post hoc, propter hoc”. Tuttavia questi studi stornarono l’attenzione dai principi attivi prodotti dall’Ascomicete, rinviando ancora di molti anni la completa soluzione dell’enigma.


Gli alcaloidi dell’Ergot

Sarà l’analisi chimica a gettare luce sull’eterogeneità degli effetti possibili e, perciò, sulla contraddittorietà delle esperienze registrate nel corso della storia. Infatti dall’analisi chimica verrà lo studio biochimico e farmacologico che ha accertato, per una grande quantità di composti, il meccanismo d’azione, consentendo non soltanto di capire la genesi dei sintomi dell’intossicazione e dell’attività uterocinetica, ma anche di isolare e purificare molecole per uso terapeutico. Dando uno sguardo all’elenco dei composti riscontrabili nelle cellule del micete, è facile rendersi conto di quale terribile cocktail di farmaci gli antichi erboristi disponessero.

Aspetti indubbiamente affascinanti sono quelli che riguardano la genesi delle alterazioni mentali, fino a vere e proprie psicosi[12] negli intossicati, e i motivi che inducevano alcuni a rivolgersi a maghi ed erboristi per ottenere preparazioni della segale cornuta come oggi accade con sostanze di abuso, la cosiddetta “droga”.

Fra le tante molecole prodotte dalla Claviceps purpurea in grado di esplicare effetti biologici, quelle maggiormente studiate sono gli alcaloidi, caratterizzati dall’avere in comune la struttura chimica dell’acido lisergico e, al variare delle dosi, un’azione più o meno spiccata diretta o indiretta sul sistema nervoso. Pertanto, nel tentativo di interpretare gli effetti psichici, è difficile attribuire la responsabilità ad un solo composto. Tuttavia, per alcune proprietà, il rapporto dose-effetto consente di restringere estremamente lo spettro. E’ il caso della dietilammide dell’acido lisergico o LSD, che con soli 100 μg è in grado di produrre alterazioni psico-percettive e comportamentali evidenti, senza forti stimoli sul sistema nervoso simpatico, per una durata approssimativa di otto ore. L’LSD, ovvero la droga più usata dai giovani delle Università americane all’inizio degli anni Sessanta per effetto del proselitismo magico-mistico indotto dall’assunzione rituale che ne facevano molte comunità di hippies, è un derivato della Claviceps.

E’ lecito supporre che sostanze psicotrope come la dietilammide dell’acido lisergico abbiano avuto una parte importante nel determinare lo stato mentale degli intossicati, così come nel determinarne l’uso volto ad ottenere cambiamenti dello stato di coscienza. Difatti sono sufficienti piccole dosi perché si abbia talvolta euforia, talaltra depersonalizzazione ed ansia; effetti che inizialmente si possono avere anche per dosi maggiori, prima che si determinino le alterazioni della percezione. Queste riguardano soprattutto il senso dell’udito e del tatto e, con minore frequenza, i processi visivi; si tratta, a rigore, di distorte percezioni, ossia un suono udito viene interpretato come avesse una natura diversa da quella reale, ad esempio un frusciare si scambia per un bisbigliare, oppure uno stimolo tattile lieve ed aspecifico, quale quello prodotto dal vento sulla pelle, può essere interpretato come una carezza. Le allucinazioni vere e proprie, ovvero l’elaborazione da parte del cervello di una percezione in assenza dell’oggetto-stimolo, rappresentano un evento raro ed incostante di dosi estremamente elevate[13]. Pertanto è ragionevole escludere che anticamente si facesse ricorso alla segale cornuta a scopo allucinogeno perché, per ottenere alte dosi dei composti dotati di questa proprietà, sarebbe stato necessario ingerire quantità probabilmente mortali di altri alcaloidi della Claviceps. Una proprietà dell’LSD, che invece può aiutare a spiegare le turbe mentali degli assuntori di pane di segale, è quella psicosomimetica: questo termine psichiatrico indica la capacità di determinare già alla prima assunzione lo sviluppo dei sintomi di una psicosi, cioè una grave alterazione mentale che corrisponde a ciò che comunemente si indica come pazzia o follia.


L’ergotamina è stato il primo composto, fra i derivati della Claviceps, ad essere impiegato a scopo terapeutico: per molto tempo è stato il farmaco più adoperato nell’emicrania acuta. La sua efficacia è così specifica che la si impiega come test diagnostico; i migliori risultati si ottengono  assumendola nella fase prodromica dell’attacco acuto. E’ interessante notare che l’assorbimento aumenta notevolmente se si associa un altro alcaloide, estratto veramente da una pianta, in questo caso, la caffeina[14].

Fino alla recentissima introduzione di altri farmaci, gli alcaloidi dell’Ergot avevano quasi l’esclusiva nella terapia dell’emicrania, perché nelle forme croniche si adoperava estesamente la metisergide, altro composto con la medesima origine[15].


L’uso delle preparazioni della segale cornuta in campo ostetrico, sebbene avversato e sconsigliato, non fu del tutto abbandonato per lungo tempo, infatti proprio a seguito di questo impiego empirico, si era osservato che le donne che ne facevano uso andavano più raramente incontro ad emorragie, sebbene la ragione non fosse da ricercare in un potere coagulante. Si ritenne che l’effetto dipendesse dalla contrazione dell’utero, ma l’unico principio attivo conosciuto, ossia l’ergotamina, non sembrava particolarmente efficace in tal senso. Un medico-ostetrico britannico Chassar Moir, partendo dall’accertamento che la droga grezza era in grado di esplicare un effetto maggiore dell’ergotamina, condusse dodici anni di ricerche dal 1932 al 1944, che lo portarono all’identificazione dell’ergonovina, un secolo dopo gli studi pionieristici di John Stearns.

La comprensione del meccanismo d’azione portò gradualmente all’uso attuale, ovvero l’impiego[16] per controllare il sanguinamento post-partum e prevenire le emorragie. Oggi l’ergonovina non si adopera mai prima che il travaglio sia completo e la nascita avvenuta, perché è noto che la potente e prolungata contrazione uterina può determinare sofferenza e morte del nascituro.

Un altro impiego dell’ergonovina, certamente meno noto, è quello che si fa in corso di coronarografia per porre diagnosi di angina di Prinzmetal.

In Farmacologia gli alcaloidi dell’Ergot si classificano in aminici come l’ergonovina e la metisergide e peptidici come l’ergotamina e la bromocriptina, e si distinguono in base al loro meccanismo d’azione che si può riportare a due modalità: recettoriale[17] e diretta sulle fibrocellule muscolari[18]. Entrare nei dettagli delle proprietà dei numerosi composti naturali e di sintesi che oggi si conoscono e si impiegano, esulerebbe dai limiti di questa trattazione che affida alle due ultime note a piè di pagina un piccolo approfondimento per i lettori con preparazione e curiosità più specifiche.


Questa storia ha, nell’opinione di chi scrive, molti aspetti esemplari o paradigmatici, che andrebbero discussi, dibattuti, approfonditi in ogni aspetto e, in particolar modo, per ciò che concerne il rapporto fra i modi della conoscenza e l’uso dei saperi. Questo breve scritto vuole offrirsi come materiale, in un certo senso umile, per una riflessione dialogata che affronti i nodi che legano la psicologia individuale alle forme del sapere sociale, proprio studiando quei paradossi che portano, attraverso il pensiero magico ed il pregiudizio euristico, la soggettività irrazionale a generalizzarsi e la cultura logico-empirica della prova condivisa a circoscriversi.


                                                              G. Perrella-BM&L




[1] Sembra che “Parlascio” derivi da “Perilasium maius”, lotta di gladiatori che avveniva nell’Anfiteatro della Florentia romana che sorgeva in quella zona. L’Anfiteatro, che andava dall’odierna piazza S. Croce all’Arco dei Peruzzi, aveva l’aspetto di due teatri accostati, considerando un teatro, secondo la regola di Vitruvio, lo spazio di mezzo cerchio ed un quarto (Foresto Niccolai, Bricciche Fiorentine, parte prima, p. 285, Coppini, Firenze, 1997).

[2] La segale cornuta è ancora impiegata nel mondo per interrompere la gravidanza, particolarmente nei paesi in cui l’aborto è vietato per legge, insieme con un gran numero di altri vegetali di dubbia efficacia, fra cui si annovera il prezzemolo.

[3] Nel 1953 in Francia si è verificata l’ultima epidemia di “ergotismo” secondo quanto affermato da Paolo Preziosi (v. note al relativo capitolo dell’edizione italiana di Meyers, Jawetz, Goldfien, Farmacologia Medica, Piccin, Padova 1975).

[4] Dal termine “Ergotismo” con cui si indicava l’intossicazione vasospastica deriva la moderna espressione “alcaloidi dell’Ergot” per indicare i principi attivi di cui si conoscono proprietà chimiche, biochimiche e farmacologiche.

[5] Si veda il classico saggio di Barger, cui estesamente ci siamo riferiti per i dati storici: G. Barger, Ergot and Ergotism. Gurney & Jackson, Edimburgh, UK, 1931.

[6] Sono state proposte altre etimologie, per la verità talvolta fantasiose e poco documentate. Tra queste una certa verosimiglianza si può riconoscere all’ipotesi dell’origine dal termine greco cheo che vuol dire versare un liquido o colare un metallo. Poiché si pensava che le più antiche conoscenze naturali e sulla materia provenissero dall’antico Egitto, alcuni hanno visto nei vocaboli Chamie/Chemie che designavano anticamente una regione egiziana, l’origine della parola; per gli stessi motivi altri l’hanno identificata nel titolo di un antico libro sui segreti di arti egizie, Kema. Si può ricondurre a questo filone anche l’ipotesi dell’origine dal nome di uno dei figli di Noè, Cham, da cui Chamie. (Vedi Antonio Di Meo, Storia della Chimica, Newton Compton, 1994).

[7] Circa la presa del sapere scientifico sui contemporanei, non senza ironia, si può rilevare che dopo quattro secoli le cose sono cambiate meno di quanto fosse lecito attendersi (vedi in “Frodi Inganni ed Errori” il brano “Fiori e tachioni”).

[8] Per “droga” convenzionalmente si intende in farmacologia il corpo vegetale da cui si estraggono i principi attivi; per maggiori dettagli vedi la voce “farmaco” nella rubrica “Alfabeta”.

[9] I Miceti, dal Greco μυχής = fungo, sono microrganismi eucarioti (Protisti superiori) che costituiscono l’oggetto di studio di quella branca della Microbiologia che prende il nome di Micologia. Sovente organizzati in strutture pluricellulari di dimensioni notevoli, possono crescere come cellule isolate ed in tal caso li si indica con il nome di lieviti, oppure costituire strutture filamentose plurinucleate dette muffe. Gli Ascomiceti sono caratterizzati da strutture, generalmente a forma di clava, dette asci. L’asco è una particolare cellula specializzata in grado di produrre le ascospore.

[10] Le cellule del fungo proliferano per divisione apicale o laterale formando un intreccio irregolare di cellule detto micelio. Il singolo filamento, che così si produce, prende il nome di “ifa”. Il micelio è formato da cellule non differenziate aventi funzione assorbente e struttura non definita, che si adatta al substrato sul quale cresce. Questi adattamenti sono in special modo evidenti nelle forme parassite che si insinuano fra i tessuti dell’ospite in modo molto regolare. Organi di conservazione particolarmente resistenti sono gli sclerozi, nei quali le ife sono unite fra loro in modo molto omogeneo e formano uno pseudoparenchima.

[11] F. H. Meyers, E. Jawetz, A. Goldfien, Review of Medical Pharmacology, Lange Medical Publications, biennial editions since 1974, Los Altos, California, USA.

[12] Per psicosi nella pratica psichiatrica si intendono le malattie mentali caratterizzate da una grave disorganizzazione della personalità con distacco dalla realtà, deliri, allucinazioni, regressione psichica.

[13] Non è corretto affermare che molti derivati dell’Ergot, fra cui LSD, siano dei potenti allucinogeni (anche se talvolta lo si legge in libri di testo di Farmacologia, vedi ad esempio A. Marino, Farmacologia Clinica e Farmacoterapia, pag. 206, Idelson, 1989). Probabilmente si è indotti in errore a motivo del fatto che sono potenti, cioè sono sufficienti piccole dosi per produrre effetti. Viceversa, le allucinazioni sono incostanti, più spesso presenti in condizioni di assunzione rituale di gruppo, o nel corso di una psicosi delirante acuta. Meno frequenti di quanto si pensava un tempo le esperienze allucinatorie con coscienza vigile, i cosiddetti “trips”, che appartengono più all’aneddotica degli assuntori che al riscontro in condizioni sperimentali controllate. La maggior parte degli assuntori sporadici riferisce sensazioni sgradevoli o spiacevoli, spesso associate ad ansia, tachicardia ed altre manifestazioni di attivazione dell’ortosimpatico. Le esperienze allucinatorie visive caratterizzate da immagini del tipo di una grossa pianta di fagiolo che cresce a vista d’occhio e a dismisura o le immagini tipo “grata-tunnel” come quelle prodotte dal cervello premoriente, non hanno né una particolare frequenza, né alcuna specificità nell’azione di queste molecole.  

[14] Esistono specialità farmaceutiche che associano, generalmente, 100 mg di caffeina per dose di ergotamina.

[15] Il suo uso per trattamenti protratti si è molto ridotto perché può causare fibrosi retroperitoneale e subendocardica. Inoltre, se associata all’ergotamina per il trattamento acuto, può provocare crisi di vasospasmo grave e protratto.

[16] Alla dose media di 0,2 mg per via intramuscolare.

[17] Possono interagire con i recettori sia in senso agonista che antagonista, come accade per i recettori alfa-adrenergici e serotoninergici, o solo con funzione agonista come nel caso dei recettori dopaminergici centrali; inoltre alcuni composti hanno maggiore affinità per i recettori pre-sinaptici, altre per i post-sinaptici. La bromocriptina ha un’elevata affinità per i recettori dopaminergici, motivo per cui si impiega come farmaco nel trattamento del morbo di Parkinson che è dovuto a degenerazione delle vie dopaminergiche nigro-striate, particolarmente nei pazienti refrattari alla L-Dopa, che è il farmaco d’elezione. Attualmente si conosce anche il motivo dell’effetto collaterale indesiderato più frequente della bromocriptina, ovvero il vomito accompagnato da nausea: la Chemoreceptor Trigger Zone, preposta all’innesco del riflesso del vomito, è provvista di recettori dopaminergici per i quali la bromocriptina ha un’altissima affinità.

[18] Molti alcaloidi dell’Ergot sono provvisti di azione miocontratturante, particolarmente spiccata sulla muscolatura liscia dei vasi; questa proprietà viene soppressa dalla di-idrogenazione. Su questa base sono state realizzate delle specialità come la diidroergotossina o Hydergina costituita dai derivati metansulfonati in parti uguali di diidroergocristina, diidroergocornina, diidroergocriptina, in grado di migliorare la circolazione cerebrale per le quali si era addirittura ipotizzato un’efficacia, scarsamente provata, nel trattamento dell’invecchiamento cerebrale. E’ probabile invece che il miglioramento delle performances cognitive indotto dai derivati diidrogenati sia prevalentemente da attribuire alle migliorate condizioni di irrorazione ematica e, perciò, di efficienza metabolica neuronale.